19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Massimo Franco

Sul voto ha influito una miscela di fattori, che vanno dall’ostilità contro Renzi, alla voglia di difendere la Costituzione, al rifiuto di forzature parlamentari

Una nazione dove la democrazia è viva: questo dice la percentuale degli elettori che sono andati a votare ieri per il referendum costituzionale. Ha detto no al modo in cui Matteo Renzi voleva cambiare la Costituzione, più ancora, forse, che al suo governo. Al di là del risultato che si profila e degli ultimi scampoli polemici perfino sulla qualità delle matite usate nei seggi, l’elettorato ha dimostrato di tenere alla Carta fondamentale: più di partiti che per mesi hanno privilegiato uno scontro velenoso sul governo, lasciando in ombra i contenuti della riforma, quasi fossero secondari. Il risultato è la bocciatura imprevista di un’intera fase politica, che l’annuncio di dimissioni del premier sigilla.
Il tentativo di puntellare un esecutivo non eletto attraverso la consultazione referendaria, si è rivelato un azzardo. Ha finito per esaltare una potente voglia di partecipazione, che sfiora il 70 per cento. Il premier si era appellato a una «maggioranza silenziosa», convinto di sedurla. La maggioranza ha parlato, ma contro di lui, con uno scarto intorno ai venti punti.

Il rottamatore è stato colpito da quello che pensava essere il «suo» popolo.
Ma dire che è una vittoria del populismo contro l’establishment suona riduttivo: significherebbe regalare impropriamente a Beppe Grillo e alla Lega una grande prova di democrazia.

C’è anche l’impronta populista
Ma sul voto ha influito una miscela di fattori, che vanno dall’ostilità contro Renzi, alla voglia di difendere la Costituzione, al rifiuto di riforme approvate attraverso forzature parlamentari, allo scontento per i magri risultati economici del governo. E forse ha pesato una certa invadenza televisiva del capo dell’esecutivo nelle ultime settimane. Di questa indicazione popolare, i vinti ma anche i vincitori dovranno tenere conto. Rinfoderare le divisioni artificiose e strumentali; ripensare a una campagna che ha sovraesposto inutilmente l’Italia sul piano internazionale; e ricostruire un clima di unità che troppi da tempo stanno sabotando, magari senza rendersene conto.
Leggere il risultato assecondando la propaganda dei due schieramenti, progresso-conservazione, democrazia-svolta autoritaria, significherebbe non ascoltare il messaggio del referendum. Il segnale va oltre gli schieramenti dei partiti. E più che trasmettere rifiuto nei confronti della classe dirigente, imitando le ondate populiste che scuotono l’Europa, impone una lettura meno scontata. In sintesi, è arrivato un messaggio di protesta ma anche di grande responsabilità. Toccherà in primo luogo al capo dello Stato, Sergio Mattarella, fare in modo che il governo e Renzi interpretino al meglio il responso popolare, senza tentare improbabili rivincite. C’è da sperare che Renzi lo capisca. Il modo in cui esce di scena lascia perplessi. Non per la nettezza delle sue dimissioni, ma perché ha detto che ormai il problema della legge elettorale è affare del Comitato del No, non suo: come se si preparasse a non essere più nemmeno segretario del Pd, maggior partito in Parlamento. La tentazione di mettersi di traverso forse è il riflesso della sconfitta bruciante. Analizzando i rapporti di forza, Renzi capirà che i suoi margini sono limitati. Altrimenti, regalerebbe a chi scommette sul collasso del sistema un risultato che invece puntella la Costituzione e le radici della convivenza.
Va detto all’Europa, spaventata dalla propria crisi e prigioniera di troppi stereotipi sull’Italia; e a quanti sono tentati di soffiare sull’allarme per eventuali contraccolpi finanziari. Beppe Grillo esulta. Eppure, non si potrà intestare facilmente il successo. Anche il suo movimento dovrà fare i conti con un’Italia che riflette e insieme punisce il populismo. Ieri ha bocciato le riforme del governo, ma sarà altrettanto pronta a respingere quelle di opposizioni irresponsabili. Ci dovrebbe essere un po’ di tempo per rimodellare il sistema elettorale, tenendo conto della frammentazione e della complessità della società italiana; e per soddisfare un bisogno di riforme intatto.

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