21 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Mauro Magatti

La complessità ha bisogno di competenza e livelli adeguati di decisione. Ma questo tende a portare verso una maggiore concentrazione delle facoltà decisionali


La pandemia è a tutti gli effetti uno «stress test» per le democrazie contemporanee che devono simultaneamente gestire l’emergenza medica, alleviare la grave sofferenza sociale ed economica, portare a termine in fretta la campagna vaccinale. Occorre tanto pragmatismo (come ha detto Draghi) ma anche visione: più che una spiacevole parentesi, questi mesi di inaudita complessità sono definiti da ciò che viene demolito, piuttosto che da ciò che si sta costruendo.
In un mondo in cui la ricerca e la scienza sono beni essenziali, le istituzioni pubbliche — che pure devono avere un ruolo regolativo — sono apparse spesso in ritardo, qualche volta inadeguate. Gli Stati inseguono l’innovazione servendosi di comitati tecnici e autorità indipendenti — nazionali e internazionali — che però non sono sempre all’altezza, specie quando le questioni hanno scala planetaria (vedi Oms). D’altro canto, le grandi imprese — tecnostrutture sempre più evolute, come le aveva chiamate K. Galbraith — sovrastano le capacità delle burocrazie pubbliche. E in qualche caso persino dei governi. Col risultato che, sempre più spesso, i grandi gruppi privati si trovano a trattare direttamente questioni che hanno un enorme impatto pubblico (vedi ad esempio i vaccini, ma lo stesso si potrebbe dire per l’AI).
Un problema che si complica in rapporto al tema della raccolta dei dati: una volta monopolio pubblico (con gli istituti di statistica), al tempo della digitalizzazione la datificazione è diventato un bene diffuso, vero e proprio fattore produttivo. Indubbiamente la grande disponibilità di informazioni è di grande aiuto per il governo dei fenomeni complessi, rendendo possibili decisioni meglio fondate e più tempestive. Ma il dato — che è sempre un costrutto — rimane faccenda delicata: le questioni legate alla privacy, alla accuratezza della raccolta, alla sua trasparenza e alla libera circolazione, alle tecniche di elaborazione sono tutti aspetti molto delicati.
In questi 12 mesi — un anno fa con le mascherine, oggi con i vaccini — è stato altresì evidente quanto la logistica e più in generale l’efficienza organizzativa facciano la differenza. Gli inceppamenti che quotidianamente affiorano (si pensi alle tante difficoltà di una regione simbolo come la Lombardia) rivelano quanto lavoro c’è ancora da fare per far sì che i nostri sistemi pubblico/privato raggiungano quegli standard di cui abbiamo bisogno. In un ginepraio di regole contrattuali, logiche autorizzative, rigidità burocratiche.
Il fattore comunicativo accresce ulteriormente la complessità. Contemperare il diritto a essere informati con l’esigenza di non finire vittime di psicosi collettive — magari generate da cattiva informazione (se non vera e propria disinformazione) — è impresa tutt’altro che facile. Se, come insegna il «teorema di Thomas», «cio che è definito come reale, è reale nelle sue conseguenze», allora è necessaria una gestione molto competente della comunicazione pubblica per ridurre pericolose oscillazioni emotive e percettive dell’opinione pubblica: AstraZeneca docet.
Senza dimenticare il piano delle relazioni internazionali che, nella fase della globalizzazione «matura», contano sempre di più. Sui vaccini, ad esempio, la concorrenza tra i big player mondiali si è giocata prima nella innovazione (con un grave ritardo della Ue), poi nella produzione e infine nella distribuzione: la disponibilità del vaccino è un’arma per il consenso interno quanto per l’influenza internazionale.
Da tutto questo derivano almeno due considerazioni. La prima ha a che fare con gli assetti istituzionali e la nostra attuale capacità di governo. Stati, burocrazie, imprese, università, autorità indipendenti, organismi sovranazionali costituiscono un’ampia gamma di soggetti dotati di competenza e autorevolezza che si muovono su ambiti e spazialità diverse. Il problema è la coerenza e il coordinamento di tali soggetti. Non solo perché gli ordinamenti sovranazionali rimangono fragili e farraginosi; ma anche perché le distinzioni a cui siamo abituati (privato/pubblico, nazionale/sovranazionale) sono sempre più sfumate. Al di là dell’emergenza, l’inadeguatezza degli assetti di governo e di governance rispetto alle grandi questioni contemporanee (riscaldamento globale, approvvigionamento idrico, migrazioni, contrasto alla criminalità, etc.) rimane un nervo scoperto su cui si dovrà cercare di lavorare.
La seconda questione riguarda la verticalizzazione dei processi decisionali: la complessità ha bisogno di competenza e livelli adeguati di decisione. Ma ciò verosimilmente porterà verso una maggiore concentrazione di potere. In un pianeta interdipendente e digitalizzato abbiamo bisogno di più Stato e più mercato. In effetti, la pandemia ha messo fuori gioco i populismi che hanno cercato di sfruttare il semplicismo definito come «l’attribuzione non ambigua di cause e rimedi singoli per fenomeni a più fattori». Le ricette dei populisti si sono rivelate inadeguate e ciò ne ha (provvisoriamente) fatto scemare il consenso. Ma il fuoco cova sotto la cenere, dato che la sfiducia verso le élite rimane molto alta. L’attesa per il vaccino ha ridotto la tensione con l’opinione pubblica. Ma, di nuovo, superata l’emergenza (vedremo come) la mediazione tra le esigenze di efficienza dei sistemi — che guardano i grandi numeri — e la concreta esperienza di molti tornerà a farsi sentire. Reclamando nuove risposte. Che le democrazie non potranno eludere. Così, nel portare alla luce la complessità del mondo che abbiamo costruito, la pandemia è lo stampo in cui si vanno formando e sperimentando i modelli sociali e istituzionali del futuro.

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