Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Franco
La capacità di Conte di usare la debolezza e la mediazione come fattori di stabilità per assenza di alternative potrebbe non bastare
Le pandemie non invertono il corso delle cose, ma accelerano e amplificano tendenze già in atto: soprattutto nel momento in cui sembrano, lentamente, uscire dalla fase acuta. E così, cala il contagio del Covid-19, ma lievita quasi di rimbalzo in politica il virus della divisione e della confusione. E si assiste al trionfo dei microinteressi, costringendo il governo a spostarsi quotidianamente da un fronte all’altro, senza riuscire a chiudere un solo dossier. Il risultato è che il decreto con gli aiuti finanziari potrebbe slittare alla fine della settimana.
Significherebbe certificare un ritardo nella distribuzione delle risorse, che aumenterà la frustrazione dei beneficiari. Ieri il premier Giuseppe Conte, incontrando le imprese, ha detto: «Cercheremo di chiudere il “decreto maggio” in settimana». Ma non si capisce se sia una promessa o un’ammissione delle difficoltà. Il riconoscimento di una fase di «grandi sofferenze» e della necessità di «affrettare le misure» fa pensare alla seconda ipotesi. D’altronde, è già difficile barcamenarsi tra dati sul coronavirus, richieste di apertura da parte di ogni categoria, scontri tra Guardasigilli e magistrati antimafia, proposte di regolarizzare i clandestini.
Se poi queste pressioni si abbinano a tentazioni di smarcamento e distinguo a tavolino all’interno della maggioranza, nervosismo e spreco di energie diventano una dose quotidiana. Logorano oggettivamente un esecutivo che fatica a mostrare una visione di insieme; e lo costringono a fare della propria sopravvivenza l’unica ragione di essere. Ma un progetto chiaro non difetta soltanto a Conte e ai suoi alleati. Dimostra di non averne nessuno anche chi tenta di disarcionarlo sperando non si sa bene in che cosa. La debolezza del governo accelera tentazioni affiorate da quando è stato formato, il 1° settembre scorso.
L’epidemia, meglio l’inizio della cosiddetta Fase 2, le sta rendendo più esplicite e febbrili. Eppure, in parallelo ne sta rivelando i contorni velleitari e insidiosi per un’Italia che cerca di uscire senza eccessivi disastri da una fase spaventosa. Si colpisce per protagonismo, per miopia, o confidando di lucrare qualche vantaggio da un peggioramento della situazione. E il fatto che gli attacchi non abbiano ancora uno sbocco non evita danni collaterali inevitabili, in termini di legittimazione e di credibilità. Vale tanto più per un governo e un Paese che stanno ricevendo un aiuto sostanziale dall’Europa, ma risultano esposti più di altri.
Debbono confrontarsi con le diffidenze e i pregiudizi di alcune nazioni nordeuropee, e soprattutto con le oscillazioni e la fiducia dei mercati finanziari. E si debbono giustificare di fronte ai sospetti, strategicamente pesanti, che il partito maggiore, il M5S, non mostri sufficiente chiarezza nelle alleanze di politica estera: tanto più con un ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che sogna un governo di soli grillini. Le spinte centrifughe di Iv, che oggi andrà da Conte, e le convulsioni dei Cinque Stelle, spaccati perfino nei rapporti storici con alcuni spezzoni della magistratura, sono indizi allarmanti.
Il premier si è dimostrato un incassatore e un navigatore, forte di un’identità politica ibrida. Ma la capacità di usare la debolezza e la mediazione come fattori di stabilità per assenza di alternative potrebbe non bastare: tanto più se al mancato arrivo di aiuti a un’economia e a famiglie in difficoltà si aggiungesse il dubbio, insinuato dagli avversari, che il premier usi come alibi il pericolo del contagio. Il trauma di questi due mesi può servire a cambiare, o a peggiorare i difetti del Paese. La sensazione è che il dilemma riguardi tutti in modo trasversale. L’esito rimane un’incognita.