Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Il voto dei comuni ha detto che il meccanismo tipico della politica democratica, e cioè allearsi con il più vicino per tenere lontano il più lontano, può ancora scattare
Mettetevi nei panni di un povero elettore di centrodestra. Ogni volta che lo chiamano alle urne lui va (almeno al primo turno, al secondo s’impigrisce) e fa il suo dovere. E così quella che nella politica dei partiti sembra essere diventata un’accozzaglia di concorrenti litigiosi, nelle urne torna invece a essere la coalizione che dominò la scena per un decennio, e che era maggioranza nel Paese anche quando perdeva le elezioni. Oppure prendete un povero elettore di centrosinistra. Sono anni che lo infastidiscono discutendo se deve avere il trattino o no, se è radicale o riformista, se la sua vocazione è maggioritaria o minoritaria. Ma lui, coriaceo, ogni volta che gli si dà l’occasione va e fa ciò che più gli interessa: impedire che vincano gli altri. Se un solo messaggio politico generale può essere colto da queste elezioni amministrative, in cui tutti i partiti hanno tentato di nascondere il proprio, un po’ anche per la vergogna di non averne uno, al punto di far scomparire i simboli in un festival di civiche, è proprio che le coalizioni, l’unione cioè di diversi ma simili, hanno ancora una notevole forza di trascinamento. È probabilmente per questo, oltre che per i suoi numerosi e ripetuti errori, che il Movimento Cinquestelle è rimasto al palo.
Lo splendido isolamento non giova a nessuno, soprattutto quando non è affatto splendido. Il primo destinatario di questo messaggio è Matteo Renzi, non foss’altro perché è il leader che più di tutti ha tentato di rendere inutili, obsolete e anacronistiche le alleanze. Il suo mantra è stato, fin dall’inizio, meglio soli: senza i vecchi capi da rottamare, senza la sinistra radicale, senza gli scissionisti, senza gli ulivisti, e infine senza i centristi. Alla fine di questa corsa, il Pd deve candidare sindaco a Genova un ex di Sel e deve votare a Palermo per Orlando, del quale era all’opposizione, rinunciando perfino al simbolo. A Palermo ha vinto, a Genova non si sa, in molti comuni parte dietro nel ballottaggio. Ma non è questo il punto. Il punto è che da solo soccombeva puntualmente contro la coalizione di tutti i suoi nemici: un anno fa a Roma e Torino, il 4 dicembre al referendum.
Lo stesso Renzi ne deve essere consapevole, se per aggirare il problema ha tentato la scorciatoia di un sistema istituzionale ed elettorale che chiudesse in una camicia di nesso la peculiarità della società italiana, molto frastagliata, densa di un reticolo di forze e poteri intermedi, pervicacemente pluralista. È questa la vera riflessione che non è ancora venuta dal Pd dopo la sconfitta referendaria: bisogna ricostruire una strategia, e metterla al posto della illusione del colpo di maglio che ti fa sfondare nel campo altrui. Ma ci vuole umiltà e sincerità per conquistarsi alleati. Non si può convocare Pisapia sotto le proprie insegne o snobbarlo a seconda del sistema elettorale del momento.
Vale anche per Berlusconi e Salvini. Sappiamo bene che l’appello all’unità in quel campo è ingenuo se prescinde dalla dura realtà di ciò che divide profondamente i rispettivi elettorati. Ma quel mondo in passato riuscì a tenere insieme i nazionalisti di An e i separatisti della Lega Nord, che era come tifare insieme il Real Madrid e il Barcellona. Due collanti però lo univano: la rivolta contro lo stato fiscale e la fame di potere di chi era da sempre un outsider. Forse che queste ragioni non esistono ancora oggi? Con una guida accettabile da tutti, e dunque non estremista, il miracolo potrebbe ripetersi.
Il voto dei comuni ha insomma detto che il meccanismo tipico della politica democratica, allearsi con il più vicino per tenere lontano il più lontano, può ancora scattare. Certo, sia a sinistra che a destra, ha bisogno di gente nuova, progetti nuovi, ideali nuovi. Ha bisogno di compromessi, di limitare i numerosi ego ipertrofici che ci sono in giro. Ma corrisponderebbe alla richiesta degli elettori, e sarebbe anche il modo migliore (certamente migliore delle larghe intese dopo il voto) di isolare e piano piano riassorbire la rivolta anti establishment che ancora si affida ai Cinquestelle. E se non lo fanno loro, centrosinistra e centrodestra tradizionali, qualcun altro prima o poi ci proverà, come è accaduto in Francia, dove gli elettori sensati si sono lanciati su un movimento nuovo di zecca, né di destra né di sinistra, pur di impedire agli elettori sovranisti di portare il loro Paese fuori dall’Europa e nell’avventura.
Anche perché perfino i Cinquestelle stanno cambiando, mano a mano che cala il vento populista in Europa e torna l’alba di una ripresa economica. Il loro tentativo di diventare più affidabili, di apparire più consapevoli della complessità del Paese, sta provocando un contraccolpo elettorale che, unito allo scarso radicamento nel territorio e a una colpevole trascuratezza nel formare una classe dirigente locale credibile, spiega il flop di domenica. Però centrosinistra e centrodestra farebbero molto male a credere che l’allarme è cessato, e che possono riprendere il solito tran tran, tanto la gente ci voterà per fermare Grillo. È davvero troppo presto per scommetterci. Almeno fino a novembre, quando si voterà per il governo della Sicilia.