L’eventuale stop potrebbe arrivare già in settimana. Il ministro Giorgetti: «Solo dopo la decisione sarà possibile capire come lo Stato, in quanto azionista, potrà operare»
Da un tribunale all’altro. È il destino di quella che si chiamava Ilva, e prima ancora Italsider, e che oggi è Acciaierie d’Italia. Nelle stanze romane del governo, tornate nella cabina di comando della più grande acciaieria del Paese dopo l’ingresso nel capitale di Invitalia, la sentenza più attesa non era quella di ieri ma la prossima. Quella del Consiglio di Stato (potrebbe arrivare nei prossimi giorni, forse già in questa settimana) che dovrà o meno ribadire la sentenza del Tar di Lecce del 13 febbraio scorso che — confermando una ordinanza del sindaco di Taranto del 27 febbraio 2020 — aveva disposto la fermata degli impianti dell’area a caldo, ritenuti inquinanti, entro 60 giorni. Se il Consiglio di Stato confermerà la sentenza del Tar che ha ordinato lo spegnimento, «il progetto di investimento nel siderurgico che vede partecipe lo Stato, rischia di saltare», stando non solo a quanto prospettato dagli avvocati di Invitalia — l’Agenzia nazionale per lo sviluppo che fa capo al ministero dell’Economia — nell’udienza al Consiglio di Stato ma anche a quanto detto dal ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti nel question time alla Camera del 3 marzo scorso.
I tempi
Una bomba a orologeria, con countdown molto più ravvicinato rispetto alla Cassazione del processo «Ambiente svenduto», l’ultimo grado di giudizio dopo il quale la confisca degli impianti dell’area a caldo decisa ieri avrebbe, eventualmente, effetto sulla produzione e sull’attività del siderurgico. E ieri lo ha detto, tra le righe, lo stesso Giorgetti: «Rispettiamo la sentenza — ha sottolineato il ministro riferendosi alla decisione della Corte d’Assise di Taranto — ma manca la pronuncia del Consiglio di Stato per avere il polso della situazione. A quel punto sarà possibile capire in che quadro giuridico lo Stato, in qualità di azionista, potrà operare. Servono certezze». Senza la sentenza del Consiglio di Stato, infatti, tutto resta congelato: non si può approvare il bilancio, perché non si potrebbe garantire la continuità aziendale. E senza l’ok al bilancio dell’attuale cda, l’assemblea non potrà provvedere alla sua approvazione e alla successiva nomina del nuovo consiglio di amministrazione che avrà come presidente, per ora soltanto designato, Franco Bernabè.
Continuità aziendale
Lo spegnimento dell’area a caldo e la fermata degli altiforni (vista la loro particolare tipologia) equivarrebbe, in sostanza, alla chiusura dell’Ilva attuale. E quindi la continuità aziendale non potrebbe essere garantita. Si dovrebbe attuare una vera riconversione. La «decarbonizzazione» che auspica da tempo il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, secondo cui «gli impianti a ciclo integrato che hanno determinato la morte di innumerevoli persone tra cui tanti bambini, vanno chiusi per sempre».
Il futuro sostenibile
I sindacati, rispetto a Emiliano, mantengono un approccio che guarda di più all’occupazione. Per la segretaria della Fiom Cgil Francesca Re David «sarebbe davvero una beffa insopportabile se, dopo il danno, non diventasse possibile l’approdo a una produzione ambientalmente sostenibile dell’acciaio nell’impianto di Taranto». E la beffa, per il segretario generale della Fim Cisl, Roberto Benaglia, sarebbe «la confisca degli impianti disposta dalla magistratura che, come sindacato, vediamo con forte preoccupazione». La soluzione? Per Rocco Palombella, segretario generale della Uilm, è «l’intervento diretto dello Stato nel controllo della maggioranza di Acciaierie d’Italia, non più rimandabile», e che attualmente è previsto al 2022. Ma senza continuità aziendale lo Stato potrebbe trovarsi costretto a fare un passo indietro rispetto all’investimento. E così, anche dopo la sentenza di ieri e a 9 anni dal primo sequestro, Taranto rimane con i dubbi del 2012: come conciliare salute e lavoro? E la risposta è demandata, ancora una volta, ai giudici. Ora toccherà al Consiglio di Stato.