22 Novembre 2024

Se gli europarlamentari potessero presentare progetti di legge, come nei singoli Paesi, forse la situazione cambierebbe

In Europa, per l’ennesima volta, stiamo vedendo gli effetti di uno dei grandi, drammatici eventi della nostra epoca. Da almeno un decennio, su scala mondiale, è in rapido aumento il numero delle persone che lasciano i luoghi d’origine per sfuggire a guerre, regimi oppressivi e degrado climatico o comunque per cercare prospettive di vita migliore. Con riguardo al nostro continente, colpisce l’incapacità dell’Unione europea di trovare valide formule unitarie per fronteggiare l’emergenza. L’elenco delle vivaci polemiche e delle dichiarazioni è sterminato, mentre mancano i risultati. Una situazione grave che, a ben vedere, si rivela emblematica di un fallimento a più livelli sulle cui cause è opportuna una riflessione.
I Trattati Ue sono molto chiari: impongono politiche comuni per immigrazione, asilo e controlli alle frontiere esterne, fondate sulla solidarietà, la ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri e l’equità verso chi proviene da fuori Ue. Lo scopo è disciplinare gli arrivi, gestire l’immigrazione regolare, rilasciare permessi di soggiorno e lavoro, garantire tutela a chi ne ha diritto ai sensi della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, contrastare la tratta di esseri umani e l’immigrazione irregolare. Il varo della legislazione necessaria spetta al Parlamento europeo e al Consiglio, con voto a maggioranza.
Sono basi esplicite, di ampio respiro su cui ci si aspetterebbe venga costruito uno schema articolato di idonee regole Ue. Invece, le normative emanate delineano un quadro frammentato e incompleto. Ad esempio, ci sono disposizioni per le domande di lavoro e ad hoc per i lavoratori qualificati e gli stagionali, nonché per sanzionare i trafficanti di persone e chi fa lavorare migranti irregolari. C’è poi il discusso e datato regolamento di Dublino sul diritto di asilo che fissa i criteri per riconoscerlo, caricando sullo Stato Ue dove il richiedente asilo entra per la prima volta nell’Unione ogni onere: accoglienza, verifica d’identità, esame della domanda di asilo, controllo degli eventuali movimenti irregolari verso altri Paesi europei e rientro (anche forzato) nel luogo d’origine di chi non ottiene asilo. All’evidenza, il contesto è insoddisfacente, in frizione con valori e principi Ue e con le urgenze attuali.
La prima causa è nota e palese: sono le ostinate, profonde divisioni fra gli Stati. I loro governi e non pochi partiti politici assecondano i sentimenti istintivi di diffidenza degli elettori verso i migranti e reagiscono in una logica nazionale, guardando solo all’impatto a casa propria. Si preferisce dare la colpa all’Europa o ad altri Stati, anziché cercare intese strutturate, stabili e vincolanti. Mancando la volontà di operare insieme, perfino i palliativi accordi volontari o i piani più organici si impantanano o sono sospesi unilateralmente. Ne discende che le correnti dei flussi e la geografia condizionano tutti, creando asimmetrie. Le liti sono frequenti e diventa impervio radunare una maggioranza fra i ministri al Consiglio Ue, per nuove leggi o per modernizzare il regolamento di Dublino. Poco cambia ai vertici dei capi dei governi che di rado vanno oltre i pur lodevoli proponimenti.
Una seconda causa ha per protagonista la Commissione. Nel sistema dell’Unione, è l’unico organo abilitato a fare proposte legislative: quindi, ha il potere/dovere di attuare i precetti dei Trattati Ue. Tuttavia, a differenza di quanto fatto in tanti settori, per le immigrazioni non ha portato avanti un concreto disegno ambizioso, al passo con i tempi. In buona sostanza, ha svolto un’azione mediatrice, spesso preziosa, ma non ha messo sul tavolo progetti in grado di stimolare, magari provocare, gli Stati indolenti ed egocentrici. Eppure, a sentire il recentissimo discorso della presidente, non difettano né la piena cognizione dei problemi, né le intenzioni positive.
Lo stallo europeo sconcerta e alimenta le ansie dei cittadini. La soluzione richiede più concordia fra i governi e una spinta efficace dalla Commissione. Mai dire mai, benché dopo anni di attesa e drammi, le speranze vacillino. Le difficoltà sono politiche e serve una svolta culturale, perché il motivo che le rende ostative rimane la carenza di vocazione genuinamente europea.
A ben vedere, però, una componente negativa dipende anche dall’usurata architettura istituzionale Ue. Gli Stati contano troppo: quando divergono, guidati dal prisma nazionale, l’Unione si ferma a prescindere dagli equilibri scaturiti dalle elezioni per il Parlamento europeo. Se poi latitano le incisive mediazioni di rango, non c’è nulla da fare. Si badi che, per il tema dell’immigrazione, la previsione nei trattati Ue di delibere a maggioranza al Consiglio, fa cadere l’alibi secondo cui non si riesce a decidere per via del voto all’unanimità. Pesa la titubanza della Commissione nel redigere proposte per nuove norme. Forse è dovuta alla percezione della prevedibile opposizione determinante di vari governi, ma mostra i seri limiti del suo tradizionale monopolio dell’iniziativa. Se i parlamentari europei fossero abilitati a presentare progetti di leggi Ue, così come lo sono i colleghi di qualsiasi altro parlamento democratico, esisterebbe almeno un’alternativa.
Dunque, si dovrebbero ridefinire meccanismi nodali per consentire all’Unione di agire laddove oggi è frenata o bloccata (la politica per l’immigrazione è un esempio fra vari). A tal fine, la strada maestra più trasparente è una sola: modificare i Trattati base e rivederne gli assetti funzionali nella cornice uniforme di una Costituzione dai connotati riconoscibili.

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