Non è un caso che i suoi governi, pur disponendo a lungo di maggioranze massicce, sono stati per più versi una collezione di promesse e di occasioni mancate
Dietro una bonomia e un’affabilità molto milanesi Silvio Berlusconi nascondeva la realtà di un uomo dal temperamento e dalla volontà d’acciaio. Agito da mille interessi, dotato di mille vite e di mille capacità, tenacissimo nella cattiva sorte e nella sconfitta, pronto sempre a ricominciare senza mai darsi per vinto: un temperamento d’acciaio, appunto. Ma Forza Italia, la sua creatura politica, invece, è sempre rimasta un partito di plastica: collettore di grandi consensi elettorali, certo, ma sempre privo di una autentica capacità di vita autonoma, di veri organi interni, di qualunque articolazione territoriale della cui attività si avesse notizia. Insomma un’obbediente creatura nelle mani del suo padrone che così la volle sempre. Proprio questa duplicità — da una parte la qualità dell’uomo e l’eccezionalità del suo ruolo nell’economia e dall’altra la pochezza della sua creatura politica — aiuta a mettere a fuoco un significato centrale della presenza di Silvio Berlusconi nella storia d’Italia.
Berlusconi appartenne a quella schiera di grandi imprenditori dotati di un geniale spirito innovatore che, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, segnarono l’ingresso dell’Italia nel novero dei grandi paesi industriali moderni. La schiera degli Enrico Mattei, dei Giovanni Borghi, degli Enzo Ferrari, dei Serafino Ferruzzi, dei Michele Ferrero: il Cavaliere era di quella razza lì.
La sua intuizione e la sorte vollero però che il principale campo d’azione in cui a un certo punto decise di cimentarsi fosse la televisione. Vale a dire il settore, tra tutti, che per ovvii motivi è il più intrecciato con la vita pubblica e perciò è il più contiguo alla politica, ai più o meno legittimi interessi di questa: e dunque anche alle sue ostilità. Silvio Berlusconi si trovò così fatalmente costretto ad avere a che fare in misura massiccia con la politica, a doverla utilizzare e a doversene proteggere. Di conseguenza, una volta caduto nel 1992-93 il comodo velo d’interposizione offertogli per anni dal craxismo, a entrare direttamente in politica. A farsi lui stesso politico.
Da quel momento la sua vicenda diventa esemplare di molte cose ma di una in particolare: del modo di atteggiarsi rispetto alla politica tipico di chi viene dal mondo del fare, dell’imprenditoria. Berlusconi, infatti, è stato un rappresentante per antonomasia della cultura politica di quel mondo. E insieme quindi della cultura politica prevalente in una parte consistente dell’elettorato italiano: quello che ruota intorno all’universo vastissimo della microimprenditorialità, del commercio, della miriade di persone che aspirano a far parte dell’uno e dell’altra. Gente che in genere ha le idee molto chiare (e spesso anche giuste) su ciò che vuole dalla politica, su quanto sarebbe bene che la politica facesse, anche se quasi mai sul modo in cui quelle cose, poi, sarebbe possibile farle davvero.
In nessun caso però dei nemici dell’ordine costituito. Il New York Times dell’altro giorno ha intitolato il necrologio di Silvio Berlusconi: «Addio all’uomo che ci ha dato Trump». Nulla di più falso. Mai e poi mai Berlusconi avrebbe aizzato i suoi seguaci a dare l’assalto a Montecitorio (la massima prova eversiva che gli si può attribuire fu qualche anno fa un patetico coro di una cinquantina di parlamentari di Forza Italia davanti al Palazzo di Giustizia di Milano). Coloro che per anni hanno farneticato del Caimano pronto a incitare la plebaglia a mettere a ferro e fuoco l’Italia, oggi non possono che riconoscere il proprio abbaglio.
È questa una distinzione fondamentale se si vuole capire la vicenda di Berlusconi: un conto è l’antipolitica, un altro l’estraneità alla medesima. E fu questa la specialità di cui l’ex premier è stato un campione naturale (guadagnandosi così il successo che si è guadagnato tra la gente comune). Tutti gli ingredienti quotidiani della prassi politica democratica — dalle schermaglie parlamentari alle dichiarazioni infarcite di sottintesi — non gli dicevano nulla. Ma in realtà poco gli interessava, addirittura forse lo annoiava, anche decidere, anche governare quando si trattava di cose lontane dai suoi interessi (non intendo solo di quelli delle sue aziende). Non è un caso che i governi Berlusconi, pur disponendo a lungo di maggioranze massicce, sono stati per più versi una collezione di promesse e di occasioni mancate. A pensarci bene una cosa abbastanza singolare per un uomo che in pochi anni era stato capace di fare ciò che lui aveva fatto. Eppure egli si rivelò inspiegabilmente incapace di decidere e di cambiare incisivamente proprio dove più sarebbe apparso ovvio che decidesse e cambiasse: ad esempio nel riformare la macchina dell’amministrazione pubblica e delle sue regole, nel disboscare la giungla burocratica italiana, nel cancellare istituzioni ed enti inutili, nell’ imprimere una spinta realizzativa negli investimenti pubblici (caso tipico i lavori dei cantieri), nel diminuire le tasse. Insomma nel realizzare quella rivoluzione liberale tanto promessa e mai neppure iniziata.
Il punto è che il «fare imprenditoriale» è cosa assai diversa dal «fare politico». L’esperienza di Berlusconi attesta non solo questa diversità, ma altresì un dato storico importante: la difficoltà della classe imprenditoriale italiana a comprendere davvero i meccanismi della politica, a entrare nelle sue logiche, e dunque il semplicismo, l’atteggiamento troppo spesso di facile superiorità con cui molte volte i suoi esponenti si avvicinano alla politica e a chi vive di essa e per essa. Si tratta di una difficoltà/estraneità nella quale pesa in misura decisiva un ulteriore dato. Il fatto che non ci si può immedesimare nella politica, non si può sentirla come cosa propria, sentire la passione di «farla» — che in ultimo, per l’appunto, vuol dire la passione di decidere per conto e nell’interesse della propria comunità — se non si ha quello che si chiama il senso dello Stato, di quello Stato che non è altro che l’organizzazione politica di una comunità. Se non si ha la consapevolezza dell’importanza cruciale delle sue istituzioni, della loro storia, del loro valore, della loro utilità. È una tale consapevolezza, che al pari di molti suoi colleghi Silvio Berlusconi non aveva nella misura necessaria e che contribuisce a spiegare i limiti della sua azione politica e della difficile eredità che egli lascia a Forza Italia.