Fonte: Corriere della Sera
di Dario di Vico
Le manifestazioni degli imprenditori comprensivi con il Carroccio, avversari del Movimento
Il calendario delle manifestazioni di dicembre indirizzate a criticare la politica economica del governo è decisamente ricco. Il 3 a Torino i consigli generali dell’associazionismo d’impresa, il 13 a Milano gli artigiani del Nord Italia, nei giorni successivi a Verona le forze produttive locali. Alle mobilitazioni fisiche si aggiungono poi nuove forme di protesta come la petizione popolare lanciata da Federmeccanica. I contenuti di queste iniziative spaziano dalle infrastrutture alla formazione 4.0, dal fisco alle regole del lavoro e messe assieme si prestano ad essere catalogate come una sorta di programma del partito del Pil. Una forza extra-parlamentare che in una fase di scarsa incisività dell’opposizione politica non solo tiene vivo il confronto di merito con il governo ma dà una boccata d’ossigeno a una democrazia che, quantomeno, ha conosciuto giorni migliori. Non c’è alcun dubbio che questo partito veda come avversario principale il Movimento 5 Stelle sia per il doppio ruolo all’Industria e al Lavoro ricoperto dal ministro Luigi Di Maio sia (soprattutto) perché la grillonomics fatta di mercato del lavoro rigido, stop alle grandi opere, statalismo e reddito di cittadinanza contraddice le più radicate convinzioni di industriali e artigiani.
Differente è il rapporto tra il partito del Pil e la Lega di Matteo Salvini. Il leader ha innovato il lessico tradizionale del Carroccio, il sindacalismo di territorio è stato superato da una visione compiutamente nazionale e dalla scelta, risultata vincente, di preferire le competenze degli Interni a quelle dello Sviluppo economico. Sul territorio non c’è conflitto tra produttori e Lega, basta vedere come è a suo agio il governatore della Lombardia Attilio Fontana in una fiera di macchine utensili, basta ascoltare quello che dice Luca Zaia o seguire l’attività dei sindaci. L’impressione è che il vecchio nucleo leghista, da Varese a Treviso, abbia fatto propria la svolta salviniana ma non abbia pre-pensionato il vecchio spartito. È vero che la comunicazione e non la prossimità è diventata la principale leva della politica leghista, è chiaro che è saltata la demarcazione con la destra fascista ma il legame di gran parte del gruppo dirigente leghista con la constituency delle Pmi non si è rotto. E quindi l’ambiguità di un Salvini che cresce nei sondaggi e di una protesta delle imprese che sale anch’essa sta tutta qui, nel doppio binario leghista.
È di fronte a questa ambiguità che il partito del Pil rischia di perdere la bussola. Gli imprenditori già devono fare i conti con un’economia più difficile e competitiva del pre-2008, vedono che i successi sono legati alla maggiore integrazione nelle grandi catene del valore internazionali e si trovano davanti un governo che vanta un orientamento autarchico e si fa bello del conflitto con l’Europa. Aggiungiamo pure che la rappresentanza non vive i giorni migliori, il ricambio non è mai facile, i riti spesso prevalgono sul senso e manca una vera leadership. Al tempo della crisi del governo Berlusconi tutte le organizzazioni, compresa l’Abi, redassero un documento comune che chiedeva discontinuità, oggi questa capacità di iniziativa è mancata. Per tutti questi motivi dentro il partito del Pil in molti pensano che la quadratura del cerchio possa consistere solo in una rottura della coalizione di governo e il ritorno della Lega ad alleanze più consolidate. Che servirebbero non tanto a recuperare le truppe parlamentari di Forza Italia quanto a riprendersi la primogenitura di un’idea «borghese» della politica e dell’economia.
Questa quadratura del cerchio in salsa nordista però richiede a Salvini un passaggio politico e culturale che va al di là della rottura del contratto con Di Maio e investe il riconoscimento del fallimento del modello economico alternativo che sta guidando la sua azione e lo ha guidato nelle scelte di alcune candidature-chiave. Dovrebbe rimangiarsi l’idea di un’Italia autarchica che affida il suo rilancio alla svalutazione competitiva e al sostegno statale alla domanda interna, un sovranismo piccolo piccolo che in tempo di economie integrate e interdipendenti appare una pia illusione. Questo passaggio per Salvini oggi appare pressoché impossibile ed è il limite strutturale della sua leadership.