Una possibilità che viene riconosciuta agli elettori allo stesso modo va riconosciuta ai candidati che si sottopongono al loro giudizio. E non è trasformismo
Sono almeno tre — Fratelli d’Italia, Azione e 5 Stelle — le forze politiche protagoniste della campagna elettorale, o i loro leader, cui sono rimproverate scelte compiute o cose dette e fatte nel rispettivo passato talora recente o recentissimo. Passato rispetto al quale oggi i loro esponenti mostrano più o meno esplicitamente di aver preso le distanze venendo perciò accusati d’incoerenza.
Che valore bisogna attribuire a una simile accusa? Davvero è auspicabile che chi si dedica alla politica mantenga sempre le stesse idee? Davvero è degno di rispetto solo chi di uomini, fatti e valori mantiene per così tanto tempo sempre la medesima opinione senza mai cambiarla, e quindi senza mai cambiare le proprie scelte, facendosi guidare sempre dagli stessi criteri di giudizio? Sono domande che nella vita pubblica italiana — dominata dal trasformismo per un verso ma per un altro dall’ambiguo moralismo di molte «questioni morali» — si ripropongono puntualmente. Uno sguardo al passato può aiutare a chiarirsi le idee.
Chi ha una certa età e forse qualcosa di più forse ricorda le fotografie che un settimanale di destra molto diffuso negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, Il Borghese , pubblicava in ogni suo numero. Erano perlopiù foto destinate a screditare gli esponenti politici della neonata Repubblica, in particolare democristiani e «socialcomunisti» (come allora si diceva).
Le foto riproducevano a questo fine le immagini risalenti a due tre decenni prima di molti di loro abbigliati nelle varie fogge e divise in uso nel regime fascista. Insomma gli antifascisti attuali ieri erano stati fascisti: quindi dei veri voltagabbana! Dopo un paio di decenni l’argomento cominciò ad essere trattato con ben altra serietà dagli storici. Venne così pienamente alla luce come un gran numero di intellettuali importanti dell’Italia repubblicana contemporanea — scrittori, professori universitari, giornalisti, artisti, uomini di spettacolo — molti anni prima fossero stati fascisti e spesso fascisti appassionati e convinti. Ma anche stavolta, passato un primo momento di sorpresa, nessuno sollevò un particolare scandalo.
Forse perché si era consapevoli che in un regime totalitario (e oltre tutto di un totalitarismo alquanto particolare come quello fascista) molti ingegni, specie giovani, non potessero che respirare quell’atmosfera e accettare la realtà del momento? Sì, certamente anche per questo. Ma soprattutto, io credo, per la convinzione che nei giudizi politici sia inevitabile e frequente l’errore, e sacrosanta perciò la possibilità di ricredersi. Che quando si tratta di politica — lo scenario dove tutto può cambiare con la maggiore rapidità e nella maniera più imprevedibile — mutare giudizio non è una colpa, ma spesso una necessaria presa d’atto della realtà e magari anche una prova d’intelligenza.
Circa gli esempi appena fatti si potrebbe obiettare tuttavia che essi riguardano il mutamento di convinzioni maturate in un regime dittatoriale e perciò stesso non formatesi liberamente. Ovvio quindi ritenere più che lecito cambiarle. Ma la storia è piena di esempi di autorevoli personaggi che in condizioni di piena libertà hanno espresso opinioni più che discutibili e poi le hanno radicalmente mutate senza attirarsi per questo l’accusa di essere dei voltagabbana. Nel maggio del ’40, quando divenne primo ministro di una Gran Bretagna impegnata in un duello mortale con l’Asse a nessuno che io sappia venne in mente di ricordare a Winston Churchill le sue dichiarazioni di appassionata ammirazione per il fascismo e il suo capo di qualche anno prima. Allo stesso modo, per citare un altro caso, al De Gasperi che nel 1947 organizzò l’espulsione delle sinistre dal governo e si schierò totalmente dalla parte degli Stati Uniti nessuno, mi pare, ricordò, che solo tre anni prima in un famoso discorso al teatro Brancaccio di Roma aveva fatto uno sperticato elogio di Stalin.
Ma anche nell’Italia dei primi anni ’90 del secolo scorso non fu certo intentato alcun processo pubblico né ai due-trecento parlamentari né alle migliaia di rappresentanti negli enti locali eletti nelle liste del Partito comunista che in uno breve lasso di tempo cambiarono idea circa quello che storicamente rappresentava il termine comunista e decisero di disfarsene prendendo un altro nome (alcuni sostenendo addirittura che loro in realtà non erano neppure mai stati comunisti). E sì che sarebbe stato fin troppo facile ricordare loro un’infinità di dichiarazioni e scritti di cui erano stati autori e che ora avevano un significato a dir poco imbarazzante. Sarebbe stato facile ad esempio ricordare alla presidente della Camera Nilde Iotti che ancora nel 1988 (nel 1988!) aveva firmato una prefazione (va da sé laudativa) al libro Romania, socialismo, collaborazione e pace, autore quel noto campione delle istituzioni democratiche che rispondeva al nome di Nicolae Ceausescu (la cui opera omnia, peraltro, la casa editrice del Pci, gli Editori Riuniti, aveva continuato imperterrita a pubblicare per tutti gli anni ’80). Invece non accadde nulla di tutto questo. Ormai tutto era cambiato e un’opportuna coltre di discrezione e di silenzio fu stesa sul passato, sicché pure a chi per decenni non aveva avuto alcuna parola di particolare apprezzamento per i valori della democrazia liberale (anzi) fu accreditato senza problemi da parte dell’opinione pubblica che conta uno status di perfetto democratico. A nessuno insomma fu fatto l’esame del sangue. Giustamente: perché tra i diritti che la libertà assicura c’è anche quello di cambiare idea. Un diritto che così come viene riconosciuto agli elettori allo stesso modo va riconosciuto ai politici che si sottopongono al loro giudizio.
Non bisogna, infatti, confondere tutto questo con il trasformismo e con la sua sacrosanta condanna. Cambiare opinione è una pratica spregevole quando si cambia opinione per ottenere un beneficio personale dal potere (qualcosa di molto «tangibile» ma anche, mettiamo, un posto nel sottogoverno ovvero in una lista elettorale con successo garantito: come avviene in certe disperate cacce al parlamentare «disponibile» nell’occasione di un voto di fiducia a questo o quel governo), non già quando si muta in maniera manifesta il proprio punto di vista sul mondo o la propria collocazione sullo scacchiere politico e così «trasformati» ci si presenta a viso aperto davanti al corpo elettorale. In politica periodicamente tutti più o meno cambiano: anche questo si chiama democrazia.