19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Gian Antonio Stella

Nonostante i buoni propositi riproposti subito dopo ogni calamità, l’Italia non riesce a darsi un progetto che vada al di là delle emergenze


In tutto il Settecento, da Alvise II Mocenigo all’ultimo doge Ludovico Manin «col cuor picinìn» che mollò tutto e si tolse il corno dogale davanti a Napoleone, furono registrate 29 «acque altissime» cioè superiori a 3,5 piedi veneti, circa un metro. Nel solo 2019 soltanto quattro di meno: per un totale di 25, tra cui la rovinosa «aqua granda» del 12 novembre, inferiore di appena sei centimetri a quella apocalittica del 1966.
Basterebbe questo dato, in un paese serio, a capire quanto la città più bella del mondo, immeritatamente ereditata da troppi amministratori che mostrano di non essere all’altezza, sia a rischio. I numeri, ricostruiti dallo scrittore veneziano Gianpietro Zucchetta per aggiornare vent’anni dopo la sua Storia dell’acqua alta a Venezia. Dal Medioevo all’Ottocento, spiegano tutto: 10 eventi eccezionali nel Seicento, 29 come dicevamo nel Settecento, 30 nell’Ottocento con una punta di 137 centimetri nel 1879, 164 nel Novecento. Dei quali un quinto (33) nei primi sei decenni e tutti gli altri, compresa l’alluvione del ’66, negli ultimi quattro. Con un’accelerazione: 44 eventi eccezionali nell’ultimo decennio. Per assestarsi nel nuovo secolo a 146 maree straordinarie. Un incubo. Con l’inesorabile degrado delle fondamenta. E lo scoraggiamento crescente di chi non ne può più di spalare, asciugare, soffrire.
E tutti lì, appesi ansiosi alla domanda: riuscirà il Mose a contenere il montare crescente delle acque? «Se funziona avremo la più grande opera d’ingegneria idraulica e ambientale, che il Paese può spendersi in campo internazionale», ha risposto il governatore Luca Zaia, «Se non funziona, avremo sprecato quanto meno 5,5 miliardi e sarebbe una tragedia, forse il più grande spreco mai conosciuto nella storia internazionale». Mai come in questo caso, però, non è solo una faccenda di soldi. Per quanto ne siano stati spesi un’enormità. Quanto vale, Venezia? Quanto vale la nostra credibilità nel custodire e proteggere quel patrimonio immenso che non appartiene solo a noi?
L’anno che se ne va ci lascia col magone per quelle giornate interminabili passate aspettando che le piene calassero e i negozi potessero riaprire e i veneziani, davvero eroici nella loro caparbia resistenza agli eventi, avessero infine un po’ di tregua. Ma soprattutto ci lascia con l’incubo che il progressivo aumento delle maree straordinarie possa diventare ineluttabile. Fino a portarci via quanto abbiamo di più prezioso. E a nulla serve scacciare il pensiero come una mosca fastidiosa. Né affidarsi a qualche santo come fecero gli abitanti di San Sebastiano al Vesuvio che per fermare la lava avanzante nel 1944 portarono di rinforzo alla statua del patrono anche quella di San Gennaro, sia pure coperta perché San Sebastiano non si offendesse. La realtà è sotto gli occhi di tutti. Fare gli struzzi non ha senso.
Vale per Venezia, vale per tanta parte del nostro territorio. A cercare nell’Ansa la parola «frane», ieri, ne uscivano una a Maiori con dieci famiglie evacuate sulla costiera amalfitana, una su una villetta travolta dal fango a Trieste, una su una collina venuta giù a Riva Trigoso nel Levante ligure, una sulla linea ferroviaria interrotta sulla Firenze-Arezzo, sullo smottamento di una contrada in Irpinia… Il tutto mentre abbiamo ancora negli occhi l’Autostrada Torino-Savona spezzata in due tronconi dal cedimento di un costone fangoso… Colpa del maltempo, si capisce. Ma quanti danni sono stati fatti, nei decenni, dalla superficialità di chi ha costruito male, di chi ha usato cemento di pessima qualità, di chi ha risparmiato sulle manutenzioni o distrutto boschi per piantare l’ennesimo vigneto in un paese che registra due terzi delle frane europee?
Per non dire della insipienza con cui, le macerie ancora a terra dell’ultima scossa tellurica, vengono via via rimossi la commozione, gli aiuti d’emergenza, le promesse e gli impegni solenni dopo l’ultimo terremoto. Spiega il sismologo Gianluca Valensise, dirigente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, che anche quest’anno abbiamo avuto 32 terremoti di magnitudo superiore a 4.0. In linea con i 323 registrati dal 2010 al 2019. La mappa che copre l’Appennino intero mette i brividi. Certo, il mondo ha molte altre aree altamente sismiche. Ma altrove gli scossoni tellurici colpiscono spesso aree desertiche mentre «noi abbiamo i terremoti sotto le città, una cosa che succede in pochi altri posti al mondo. Con Emanuela Guidoboni nel 2011 calcolammo un terremoto distruttivo ogni 4-5 anni: aggiornando i conti con le scosse del 2012 in Emilia e del 2016 sull’Appennino centrale si arriva a uno ogni 4.2 anni».
Eppure, nonostante i buoni propositi riproposti subito dopo ogni calamità, l’Italia non riesce a darsi un progetto che vada al di là delle emergenze. Dei tempi brevi. Brevissimi. Ma sì, si annusa nel paese una crescente consapevolezza dei problemi del nostro territorio così bello e così fragile. Ma quando mai abbiamo sentito il Parlamento intero dedicare lo spazio e il tempo necessario per discutere di questi temi vitali per il nostro futuro senza infognarsi nelle solite baruffe da comari del ballatoio con tweet offensivi allegati? Certo, come hanno recentemente sostenuto in una lettera a Sergio Mattarella novantadue scienziati può essere un errore coltivare «l’illusoria pretesa di governare il clima» perché la terra ha passato secoli di grande freddo e secoli di grande caldo prima ancora che l’uomo facesse i «suoi» disastri. Ma è moltissimo quello che gli italiani possono fare per arginare le catastrofi ambientali. Contro l’andazzo di cementificare il territorio il doppio che in Europa. Contro la gestione dissennata dei rifiuti. Contro l’uso scriteriato delle risorse. Contro l’abuso della plastica che avvelena i mari. E via così… Non basta tirar su nei tempi previsti, bellissimo, il nuovo ponte di Genova. Occorre avere l’ambizione di tornare a incidere nella nostra storia. Quella migliore. Con l’umiltà, su tante cose, di ripartire da zero.

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