Democrazie in crisi. Vanno date risposte politiche convincenti all’avanzata dei partiti di estrema destra. E la sfida deve partire da temi concreti
«That sinking feeling», quella sensazione di affondare. È questo, come ci ha ricordato Luigi Ippolito nel suo bel servizio da Londra, il titolo dell’ultimo numero dell’Economist. Titolo al vetriolo che commenta le poche settimane di vita del governo Starmer. Altro che luna di miele, come viene definito generosamente il tempo di avvio di ogni coalizione al potere. Il feroce e ormai bulimico conte Ugolino del circo mediatico ha bisogno, con sempre maggiore concitazione, di elevare, digerire, distruggere ogni cosa.
Ma la crisi di consenso dei laburisti inglesi, il cui leader in tre mesi ha perso cinquanta punti di consenso, si salda a un panorama politico europeo che dovrebbe suscitare, anche nelle suadenti riunioni di Bruxelles, motivo di allarme.
Basta guardarsi intorno. La vittoria di un partito di origine neonazista e certamente antieuropeo a Vienna è passata, come notizia, con la velocità della luce, come l’analisi delle posizioni di quella formazione. Il cui leader, per capirsi, nel tempo ha proposto di istituire centri di detenzione per i richiedenti asilo, di curare il Covid, ovviamente malattia inventata dalle élites, con un antiparassitario per cavalli, di interrompere il rapporto tra la polizia e i media considerati ostili. Fin qui potremmo essere nella squinternata dimensione del linguaggio surreale dei social. Come Trump con i gatti mangiati dagli haitiani.
Ma, parlando di cose serie, Kickl è su posizioni esplicitamente filorusse e marcatamente ostili all’integrazione europea, Sono questi due elementi, uniti a sollecitazioni xenofobe e a un marcato tradizionalismo etico, che costituiscono il filo rosso della novità politica dei primi due decenni del millennio: la costituzione, in occidente, di una nuova internazionale che potremmo correttamente definire nazional-populista.
Parlano lo stesso linguaggio, le nuove destre, e la loro progressiva affermazione spinge, per tenerle fuori dai governi, le forze democratiche a soluzioni complesse e difficilmente gestibili. È il caso della Francia, nella quale lo schieramento che ha impedito la temuta affermazione del Front National, non sembra in grado ora di esprimere una maggioranza.
Ho sempre pensato che gli schieramenti che si costituiscono solo «contro» siano una cartina al tornasole della difficoltà delle democrazie. Così come i partiti nazional-populisti al governo tendono, salvo strette autoritarie di tipo ungherese, a durare come un gatto in autostrada perché non sono in grado di mantenere le mirabolanti promesse fatte ai cittadini — come quella sulle accise sulla benzina —, allo stesso modo gli schieramenti che si coalizzano solo per impedire che vincano gli altri non riescono poi ad avere una solida base programmatica e, per non cadere, tendono a non fare.
Il tutto finisce col corrodere sistemi democratici già in affanno perché incapaci o impossibilitati a tenere la stessa velocità della società digitale.
Ma sarebbe forse giusto porsi una domanda: e se le forze democratiche oltre a cercare disperatamente di incollare i loro variegati pezzi si ponessero invece un altro, nitido obiettivo, forse quello che la politica alta dovrebbe proporsi per non ridurre il proprio campo a quello angusto e talvolta miserabile della manovra tout court?
Intendo dire che l’elettorato moderno non è come quello novecentesco. I flussi elettorali ormai, da un’elezione all’altra, puniscono o premiano a dismisura partiti e leader con una velocità sconosciuta alle tendenze del secolo scorso. C’è, in sostanza, meno appartenenza e più mobilità. Dunque la politica delle forze democratiche credo potrebbe porsi non solo l’obiettivo di impedire, spesso con legittime motivazioni, di governare al primo partito di turno, ma invece quello più ambizioso di sottrarre consenso popolare alle forze nazional-populiste.
Anche sfidandole sui loro territori preferiti, come quello della sicurezza. Garantire che in una zona di periferia una ragazza possa uscire tranquillamente la sera o che le piazze di certi quartieri popolari non diventino luoghi di spaccio, non importa fatta da chi, di droga, dovrebbe essere il compito di una cultura di sinistra che non può scrollare le spalle indifferente o rifugiarsi solo in sociologismi e formule astratte, pena consegnare quella legittima richiesta di sicurezza alle forze nazional populiste.
Così come alle culture antieuropee non si dovrebbe rispondere con la pachidermica preparazione di soluzioni tenui e mediate capaci di aggirare impossibili unanimità, ma rilanciando con decisione la prospettiva degli Stati Uniti d’Europa, misurando chi davvero vuole l’integrazione e chi invece fa da freno per sabotarla. Dalla morsa tra forze antieuropee preponderanti nell’opinione pubblica e governi democratici raffazzonati e instabili chi può rimanere stritolata è proprio l’Europa.
Le crisi drammatiche alle porte del nostro continente dovrebbero invece spingere ad accelerare politiche comuni di difesa e di bilancio.
Forze moderate, anche negli schieramenti di centrodestra, cercano oggi di temperare estremismi e impedire forzature.
Ma la dialettica dei programmi e dei valori, quella che rinfranca e rigenera le democrazie, non la si può, non la si deve più ridurre al montaliano «ciò che non siamo e ciò che non vogliamo».