25 Novembre 2024

Diversamente dagli animali, abbiamo preso un cammino esclusivo, quello dell’evoluzione culturale

Sono pienamente d’accordo con un argomento centrale dell’editoriale di Ernesto Galli della Loggia uscito sul Corriere di domenica 3 settembre. «Progressismo» è spesso uno slogan molto più che una idea, utilissimo per mascherare opportunismo (il mondo segue il suo corso, e noi con lui), conformismo (chiunque avanzi dei dubbi viene additato al pubblico ludibrio) e indifferentismo (fate come vi pare, io devo badare ai fatti miei). In questo senso, il motto implicito del progressismo-etichetta sono le parole di Tancredi Falconeri nel Gattopardo : «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Il che, però, suggerisce una parentela non troppo remota tra il progressismo e il conservatorismo di facciata, e sono sicuro che Galli della Loggia converrebbe con me nel riconoscere che anche il conservatorismo può rivelarsi non meno vacuo del progressismo quale lo dipinge nel suo articolo. A complicare le cose, la lunga stagione del postmoderno ci ha abituati a vedere schiere di intellettuali — che mai e poi mai si sarebbero definiti come conservatori — intenti a bollare il progresso come un mito caduco e tramontato. Ma visto che, purtroppo, non abbiamo a che fare con una questione di parole, e Galli della Loggia ci invita a ragionare, che cosa significano concetti pesanti come Natura, Storia, Progresso, Umanità?
Incomincio dall’ultimo, che fa da orizzonte all’intero discorso di Galli della Loggia, con un argomento che in prima istanza porta altra acqua al mulino dei conservatori. Mentre i progressisti, spesso, coltivano un’idea altamente irrealistica dell’umanità, quella di Rousseau, che ci vede un ente perfettissimo in natura, e corrotto dalla società e dalla tecnica (ciò che di passaggio offre un assist insperato ai conservatori), i conservatori, spesso, sanno fin troppo bene quanto l’umano sia debole, difettoso, malvagio e limitato. Sanno quanta fatica la società, e la tecnica che ne è una parte o meglio la precondizione (perché il mondo sociale è un mondo tecnologico, inizia con la scoperta del fuoco e con i racconti intorno ai bivacchi), debbano spendere per trasformare questa creatura egoista in un essere capace di convivere con i propri simili e con il mondo circostante. Sanno, soprattutto, che lo sforzo non è mai pienamente coronato da successo, e che un ritratto fedele dei nostri simili, unito a un esame di coscienza non troppo indulgente, dimostrano che l’umanizzazione dell’umano sia un progetto incompiuto. Sanno, insomma, che l’appellativo «homo sapiens» è l’emblema di cartapesta con cui si è auto-incoronata una specie che si definisce «sapiente» solo per distinguersi dai Neanderthaliani che ha fatto fuori insieme a tante altre forme di vita.
Tuttavia, se le cose stanno in questi termini, non è proprio al progresso che bisogna votarsi per poter tenere aperti i cammini della speranza? Si noti che in questo non c’è alcun atteggiamento fideistico. Che gli umani, oggi, siano più degni del loro nome di quanto non lo fossero i loro remoti antenati, può apparire immotivato se confrontiamo un branco di stupratori con l’idea falsa e lusinghiera che l’umano ha di sé stesso. Ma che il progresso esista è provato dal fatto che il ratto delle Sabine è, per gli standard morali attuali — quelli appunto che vengono trasgrediti dai branchi che non per caso finiscono sui giornali —, un abominio, giustificato solo dalla vaghezza del mito. E quando leggiamo di umani trascinati con i piedi legati a una camionetta in corsa (accadde qualche anno fa in Afghanistan, se non sbaglio) rabbrividiamo. Ma, se riflettiamo che questa è la sorte che Achille riserva a Ettore ucciso sotto le mura di Troia, ricordiamo che il nostro sdegno non ci fece chiudere l’antologia di epica perché l’educazione che stavamo ricevendo ci insegnava che quella era un’umanità arcaica e barbarica, e che se un uomo contemporaneo (cioè incivilito attraverso il progresso) facesse lo stesso non sarebbe un eroe, ma un bruto.
Immagino l’obiezione: potremmo escludere che un progressista, forte della sua cultura storica, e dunque consapevole delle differenze culturali, rifiuti di condannare il torturatore «extra-occidentale», per via della diversa cultura in cui si è formato? Bene, se si tratta di una persona che crede nel progresso e non di un progressista da operetta, credo proprio che lo considererebbe un bruto. Il che significa che la nozione di «progresso» è costantemente in opera, che lo sappiamo o meno, tutte le volte che guardiamo al presente. E non può essere diversamente perché la natura umana, diversamente da quella degli animali non umani, è costitutivamente una seconda natura, ossia è sistematicamente modificata dalla tecnica, e da quelle forme di tecnica particolarmente importanti sono le istituzioni.
«Nozze, tribunali, are», vi ricordate? Ecco tre istituzioni che ci hanno trasformati e che a loro volta sono in costante trasformazione. Gli animali non umani non si sposano, non divorziano, non vanno in tribunale né scelgono se farsi tumulare o cremare: seguono i ritmi della evoluzione naturale, della loro prima natura, che sono lentissimi, e dunque non devono fare i conti né con il progressismo né con il conservatorismo. Gli animali umani, invece, sono tali proprio perché la cultura va di corsa, e in certi momenti, come il nostro, lascia senza fiato. Ciò che assume, positivamente, la forma di una fuga senza fine dal nostro passato non umano, ma altre volte può presentarsi come una corsa senza fini verso un futuro confuso e spaventoso. Resta che, in quanto umani, non possiamo non dirci progressisti, per etica e non per etichetta, giacché l’umanità, diversamente dall’animalità, e in seguito a eventi ancestrali di cui poco sappiamo, ha preso un cammino esclusivo, quello della seconda natura e della evoluzione culturale. Possiamo nutrire tutti i timori possibili nei confronti di questo dono oscuro, dobbiamo saperne riconoscere la dimensione spesso tragica, e nulla ci autorizza a usare «conservatore» come un marchio di infamia. Ma, se è così, è proprio perché ogni nostro giudizio, ogni nostra ansia e ogni nostra scelta hanno luogo nello spazio di ciò che, dal Settecento in poi, si è soliti chiamare, in senso assoluto, «progresso».

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