23 Novembre 2024

Le sfide di Modi: con l’eredità del non allineamento, porterà le aspettative e le rivendicazioni di una parte sempre più larga del mondo che non è ostile all’Occidente ma ne prende le distanze

Gigantografie multicolori del primo ministro Modi celebrano a Delhi la presidenza del G20 della «più antica democrazia del mondo». Il Pil dell’India cresce più di quello della Cina, che ha superato per numero di abitanti senza chiedersi troppo se si tratti di un successo o di un problema, visto che la disoccupazione giovanile resta ferma al 45%. L’analfabetismo è sceso sotto i duecento milioni e la digitalizzazione ha fatto progressi che dovrebbero farci arrossire, grazie alla carta d’identità elettronica che permette a tutti di accedere a servizi finanziari anche nelle zone più sperdute. Nuove infrastrutture stanno cambiando la faccia del Paese. Come conciliare tutto ciò con il rischio di una «autocrazia elettiva» (come l’ha definita Edward Luce sul Financial Times), dove l’autonomia della Corte Suprema viene messa in discussione, i giornalisti sono spesso oggetto di intimidazioni e capita che più d’uno nasconda il telefonino prima di cominciare a parlare di politica?
Modi dispone di una macchina mediatica che ne proietta l’immagine di capo internazionalmente riconosciuto e inattaccabile alla corruzione. I piani di apertura al mercato — a volte più declaratori che reali — incontrano le aspirazioni della nuova classe media urbana che scalpita per entrare nella società dei consumi. I trasferimenti alle zone rurali compattano il consenso di un elettorato che gli era tradizionalmente contrario (poco importa se i «gabinetti in tutti i villaggi» ci sono, ma spesso manca l’acqua: basta l’effetto di annuncio). La bandiera dell’induismo intollerante serve nei suoi eccessi a fidelizzare le frange estremiste che costituiscono lo zoccolo duro della sua base elettorale e — nelle sue forme più moderate — a proporre l’immagine identitaria di una «nazione hindu» tutta induista, dove non c’è spazio per musulmani e minoranze e l’ascensore sociale fa premio sulla laicità e l’inclusione alla base della complessità, ma anche del successo della democrazia indiana.
Le élites anglicizzanti che avevano governato per oltre sessant’anni grazie a una Costituzione di impronta liberale, in cui sono state ricondotte a unità contraddizioni e differenze che sarebbero state devastanti altrove, sono marginalizzate. Modi si fa un vanto di non parlare in inglese e ha cominciato a sostenere che, per svolgere appieno il ruolo di grande potenza mondiale, l’India deve liberarsi delle ultime scorie coloniali e darsi un impianto istituzionale non più occidentale ma induista, le cui caratteristiche restano per il momento vaghe.
L’India è induista, ma è anche il terzo Paese musulmano al mondo per popolazione. L’inglese è parlato solo dal dieci percento, ma è l’unica delle più di trenta lingue nazionali a essere parlata in tutto il territorio. Non è il Paese pacifico che molti immaginano, ma una polveriera di tensioni etniche e religiose; le divisioni linguistiche e culturali sono molto profonde fra Nord e Sud e non solo. Se lasciata correr troppo, la deriva intollerante di cui si coglie qualche avvisaglia potrebbe sfociare in violenze incontrollabili e la «nazione hindu» naufragare in una serie di secessioni.
Modi proviene dal fondamentalismo radicale, ma è un politico pragmatico e sa che il suo successo è legato alla capacità del Paese di presentare un’immagine di stabilità e di apertura economica. È possibile che ceda alle sue pulsioni nascoste con qualche sbavatura di troppo, ma l’estremismo dovrebbe rimanere sotto controllo e la «nazione hindu» aspettare. Su autocrazia e democrazia il discorso è più complesso: Modi guarda a Erdogan ed è attratto da modelli plebiscitari, ma la tradizione democratica, per quanto imperfetta, resta radicata nel Paese e lo scetticismo crescente per il suo indocentrismo antioccidentale potrebbe, se non scalfire il suo potere, indurlo a maggiore prudenza.
Delhi punta alla presidenza del G20 per confermare il ruolo di potenza globale cui ritiene di avere diritto. La Cina resta al centro della sua visione internazionale — ad un tempo ossessione di sicurezza e modello economico da superare — e tutto il resto ne consegue. Il rapporto con gli Stati Uniti è fondamentale per contenerne la spinta espansiva nell’indo-pacifico, così come lo sono quelli con il QUAD di Australia e Giappone e le relazioni con i Paesi del Sud est asiatico, a lungo trascurate. La vicinanza con la Russia non è solo frutto di un antico rapporto di vicinanza, ma è un modo per evitare che un Paese isolato finisca per cadere definitivamente nell’orbita cinese, alterando pericolosamente i rapporti di forza nella regione. Come ha scritto Ashley Tellis su Foreign Affairs, la politica estera indiana è transactional e ha più interlocutori che alleati; chi immagina una sintonia con l’Occidente su democrazia e diritti rischia di essere deluso. Vista da Delhi, l’Ucraina rimane una crisi regionale lontana, che è importante aiutare a risolvere, senza farsi coinvolgere in una disputa ideologica che riguarda solo l’Occidente.
Il suo carattere marcante sarà di essere la prima presidenza del «global south». Cercherà di rilanciare in chiave contemporanea l’eredità del non allineamento nehruviano e porterà definitivamente nell’orbita del G20 le aspettative e le rivendicazioni di una parte sempre più larga del mondo, che non è ostile all’Occidente, ma ne prende le distanze, per sostenere un diverso modello politico e sociale, nel quale Modi si riconosce. Sarà una presidenza che rifletterà la tendenza alla scomposizione dell’ordine internazionale, meno concentrata sui temi dell’emergenza climatica e la deglobalizzazione e più a quelli dello sviluppo ineguale e della sostenibilità del debito, alla larga da problemi per essa spinosi come l’integrità territoriale. Sarà bene prepararsi in tempo.

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