19 Settembre 2024

Al di là delle eccezioni territoriali è come se il mondo politico fosse vittima di una schizofrenia, sa benissimo che la posizione italiana nel mondo dipende dalla manifattura ma non vuole compromettersi elettoralmente con essa

Il dado è tratto e ci stiamo avviando, seppure con gradualità e molti caveat, verso la ripresa delle attività dei servizi. Ci arriviamo in condizioni difficili per i settori della ristorazione, del turismo, degli eventi e fiere ma fortunatamente non è mutata la posizione occupata dall’Italia nel ranking internazionale delle potenze industriali. E questo risultato, tutt’altro che scontato, è stato ottenuto grazie alla tenuta della manifattura italiana che si è dimostrata o confermata come il vero «pavimento del Paese». È riuscita a tenere aperte tutte le connessioni internazionali, ha assicurato la continuità dei flussi, ha introdotto elementi digitali e tech nei processi di produzione e commercializzazione, ha rinnovato i contratti di lavoro con i dipendenti e in raccordo con il sistema delle reti non ha fatto mancare i beni durevoli e di consumo agli italiani appiedati dalle restrizioni sanitarie.
In virtù di questo sforzo a giudizio di Emma Marcegaglia che presiede il B20, il gruppo di lavoro sui temi dell’impresa del G20, abbiamo conservato il secondo posto nella graduatoria della manifattura europea dietro alla Germania e davanti alla Francia. Un risultato che nel tempo è diventato un presidio identitario e di reputazione internazionale perché la classifica è costruita sul differenziale di valore aggiunto. Poi con l’approntamento del progetto dei 7 mila hub vaccinali l’industria si è mossa anche per mitigare quel contrasto tra ragioni della salute e urgenze dell’economia che ha rappresentato il leit motiv dell’anno pandemico.
In virtù di questo bilancio, seppur provvisorio, possiamo dedurne che il sistema produttivo italiano si muove nella globalizzazione come un pesce nell’acqua. È chiaro che vorremmo di più, ci pesano come macigni errori commessi nella seconda parte del Novecento e che ci hanno portato a compromettere il nostro spazio in settori-chiave come la grande chimica e l’elettronica, ma pur avendo dovuto mettere da parte molte ambizioni abbiamo via via trovato formule e soluzioni originali che ci hanno permesso di non sparire. Siano state nel tempo le nicchie di mercato o i distretti, oggi le filiere e la sperimentazione di una sorta di capitalismo dei fornitori, sono servite comunque a farci restare nel novero dei grandi Paesi industriali.
Persino quello che è stato tradizionalmente considerato il nostro tallone d’Achille, il cosiddetto nanismo delle Pmi, andrebbe rivisitato perché in realtà le filiere si muovono come delle grandi imprese all’italiana, un corpo compatto di scelte comuni, partnership e cessioni di sovranità. Restarne fuori spesso equivale a uscire dal mercato.
Non è vero dunque che la massima apertura degli scambi costituisca un terreno sfavorevole alla nostra presenza nel mondo e dovremmo quindi ripescare lo Stato nazionale come soluzione sia dei nostri problemi di posizionamento geo-economico sia di crescenti disparità del corpo sociale. Siamo un Paese che non gode della rendita delle materie prime, debitore all’estero per l’approvvigionamento energetico e di conseguenza la nostra forza risiede nel valore aggiunto che sappiamo inserire nel processo di trasformazione. Lo facciamo anche con una discreta capacità narrativa per cui gli italiani si sentono depositari della formula magica del caffè senza avere sul proprio territorio le piantagioni. La continua ricerca di aggiornamento del nostro vantaggio competitivo è un mestiere difficile specie in un mondo in cui il peso della Cina cresce ma fuori di questo contesto dovremmo tornare al vecchio andazzo che nell’economia pre-euro prevedeva l’uso della leva monetaria come fattore di recupero competitivo. Ma francamente sono tante le cose che sono cambiate nell’economia mondiale e quella comfort zone non esiste nemmeno più.
Colpisce però che a fronte del rilievo che occupa il mondo manifatturiero nel determinare la nostra quotazione nel mondo non ci sia né un riconoscimento politico esplicito né un’interlocuzione costante. Non parlo ovviamente del Movimento 5 Stelle né di Fratelli d’Italia che hanno scelto dichiaratamente altre constituency di riferimento e che anzi fanno spesso della contrapposizione all’impresa un blasone, ma anche del Pd, di Forza Italia e della Lega. I dem anche sotto la segreteria Letta privilegiano il tema dei diritti come cifra identitaria, Forza Italia resta comunque prigioniera di una visione dell’imprenditoria italiana in cui dopo la stella Berlusconi è caduto anche il firmamento e quanto alla Lega solo nel Veneto c’è un reale rispecchiamento tra la sua leadership e il mondo della media impresa. Già nella vicina Lombardia o in Piemonte non è più così, mentre caso mai si può rintracciare una vocazione da partito del Pil nell’amministrazione regionale emiliano-romagnola guidata da Stefano Bonaccini. Al di là delle eccezioni territoriali però è come se il mondo politico fosse vittima di una schizofrenia, sa benissimo che la posizione italiana nel mondo dipende dalla manifattura ma non vuole compromettersi elettoralmente con essa. Gli industriali non meritano nemmeno un selfie.

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