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L’autore del rapporto sul futuro della competitività europea è intervenuto in occasione della Settimana parlamentare europea 2025 del Parlamento europeo a Bruxelles. Ed è stata l’occasione per lanciare un ulteriore altolà
Un’Europa vulnerabile, incapace di essere competitiva in una fase in cui è proprio su questo aspetto che si gioca la sfida a livello internazionale. Una vulnerabilità che nasce anche dalla frammentazione della Difesa. L’ex premier Mario Draghi è tornato a spronare l’Unione europea a suo avviso bloccata da eccesso di burocrazia ed eccesso di regole. A cinque mesi dalla pubblicazione del famoso rapporto sul futuro della competitività europea, che porta il suo nome e che Draghi aveva elaborato su incarico della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, in occasione della Settimana parlamentare europea 2025 del Parlamento europeo a Bruxelles l’ex presidente della Commissione europea ha ribadito che l’Unione europea deve attrezzarsi a far fronte a novità nei cambiamenti economici e politici globali. Ed «è sempre più chiaro che dobbiamo agire sempre di più come se fossimo un unico stato – ha affermato -. La complessità della risposta politica che coinvolge ricerca, industria, commercio e finanza richiederà un livello di coordinamento senza precedenti tra tutti gli attori: governi e parlamenti nazionali, Commissione e Parlamento europeo».
Insomma, l’Ue «è il principale nemico di se stessa». Oggi non può più esserlo. Il mondo “confortevole” di qualche tempo fa è finito, le dichiarazioni che arrivano oltreoceano portano a prevedere che l’Ue, presto «dovrà garantire da sola la sicurezza dell’Ucraina e della stessa Europa». Il tempo delle attese e dei veti è terminato. «Non si può dire no a tutto, altrimenti bisogna ammettere che non siamo in grado di mantenere i valori fondamentali dell’Ue. Quindi quando mi chiedete “cosa è meglio fare ora” dico che non ne ho idea, ma fate qualcosa!», sono le parole, nettissime, con cui Draghi ha accompagnato la sua relazione in sede di replica. Parole che hanno ripercorso, di fatto, l’incipit dell’intervento dell’ex presidente della Bce. «Dobbiamo abbattere le barriere interne, standardizzare, armonizzare e semplificare le normative nazionali e spingere per un mercato dei capitali più basato sull’equity. La risposta dell’Ue deve essere rapida, intensa, su vasta scala», ha scandito Draghi prendendo la parola in Aula all’Eurocamera.
Draghi: «Ricorso a debito comune per rilancio competitività sarà una necessità»
Al Parlamento europeo Draghi ha ricordato che la stima di 7-800 miliardi di investimenti nella Ue “conservativa” e si basa sulla situazione attuale per cui ci sarà bisogno di «emettere debito comune che, per definizione, dovrà essere sovranazionale perché alcuni paesi avranno margini di bilancio ma non a sufficienza per loro per perseguire gli obiettivi. Anche paesi più grandi non hanno spazio di bilancio sufficiente. È comunque evidente che se si fanno delle riforme (per potenziare il mercato unico – ndr) i bisogni di finanziamento potrebbero essere minori».
L’articolo su FT: «È l’Europa che ha imposto dazi su se stessa»
Non è la prima volta, negli ultimi mesi, che l’uomo del “whatever it takes” lancia il suo allarme. La settimana scorsa, ancora un monito. Dimentichiamo gli Stati Uniti: «È l’Europa che ha imposto dazi su se stessa». Il 15 febbraio sulle colonne del Financial Times Draghi aveva lanciato un messaggio chiaro: «È necessario un cambiamento radicale», una svolta. Nello specifico, «un uso più proattivo della politica fiscale, sotto forma di maggiori investimenti produttivi, contribuirebbe a ridurre i surplus commerciali e invierebbe un forte segnale alle aziende affinché investano di più in ricerca e sviluppo». Insomma, per Draghi serve «un cambio fondamentale di mentalità. Finora – ha scritto sul quotidiano – l’Europa si è concentrata su obiettivi singoli o nazionali senza calcolarne il costo collettivo». Il denaro pubblico «è servito a sostenere l’obiettivo della sostenibilità del debito» e «la diffusione della regolamentazione è stata progettata per proteggere i cittadini dai nuovi rischi tecnologici. Le barriere interne – ha sottolineato – sono un retaggio di tempi in cui lo stato nazionale era la cornice naturale per l’azione. Ma è ormai chiaro che agire in questo modo non ha portato né benessere agli europei, né finanze pubbliche sane, né tantomeno autonomia nazionale».