10 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Luigi Ferrarella

Il travagliato iter della nuova legge, passando da una proroga all’altra e sempre a colpi di fiducia, ha finito per produrre più dubbi di quanti volesse chiarire


Toccherà mettere sull’avviso la Treccani: può esistere qualcosa di indispensabile («cosa assolutamente necessaria, di cui non si può fare a meno») e tuttavia di irrilevante. Almeno per il legislatore. Nel decidere come regolare la possibilità di usare i risultati di una intercettazione in procedimenti diversi da quello nel quale era stata autorizzata, la nuova legge – oltre a richiedere che il reato sia tra quelli per cui è già consentito questo mezzo di prova – ora aggiunge la condizione che l’intercettazione debba essere non solo «indispensabile» per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, ma anche «rilevante». Così come si disquisirà a lungo di cosa questa o quella Procura riterrà «espressioni lesive della reputazione delle persone», per «vigilare» (come pretende la legge) che non vengano trascritte (salvo siano rilevanti per le indagini); e di quanti equivoci e confusioni verranno fugati o causati dall’obbligo per pm e gip di riportare i «brani essenziali» nelle misure cautelari «quando è necessario».
L’«archivio digitale», cassaforte di tutte le intercettazioni non rilevanti, perde la qualifica di «riservato», ma nel contempo guadagna il dover essere organizzato dal procuratore «con modalità tali da assicurare la segretezza». E qualche corto circuito si profila anche laddove la legge specifica che non è vietata la pubblicazione dell’ordinanza d’arresto (nella quale magari il gip tra i motivi ha riportato un brano essenziale intercettato), ma è «sempre vietata la pubblicazione anche parziale del contenuto delle intercettazioni non ancora acquisite» dall’apposita successiva procedura di selezione tra le parti (come magari l’intera frase, non riportata nell’ordinanza ma depositata alla difesa insieme a tutti gli atti posti a base dell’arresto, dalla quale il gip aveva estratto quello spezzone di brano riportato nell’ordinanza). Ancora niente a confronto del mal di testa che verrà a magistrati e avvocati nel raccapezzarsi fra tre differenti regimi di utilizzo del «captatore informatico» di comunicazioni (trojan) tra presenti in un domicilio privato: in generale lo si potrà infatti utilizzare solo se vi sarà fondato motivo di ritenere che nel domicilio o luogo di privata dimora si stia svolgendo l’attività criminosa; però si potrà sempre usare se si procederà per mafia, terrorismo e reati distrettuali come contrabbando o prostituzione minorile; e invece occorrerà la «previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l’utilizzo» se si investigherà un delitto di pubblici ufficiali (o da ora pure di incaricati di pubblico servizio) con almeno 5 anni di pena.
Del resto sono contorcimenti inevitabili se, a partire dalla delega parlamentare ottenuta dall’allora governo Renzi-Orlando il 23 giugno 2017, a fine anno un decreto legislativo rimandò di 6 mesi al 26 luglio 2018 l’entrata in vigore delle norme, poi prorogata all’1 aprile 2019 da un decreto legge, poi dilazionata ancora all’1 agosto 2019 dalla legge di Bilancio (pur mentre da gennaio 2019 la legge «Spazzacorrotti» e da novembre 2019 la sentenza Cavallo delle Sezioni unite di Cassazione stratificavano già il panorama delle captazioni), poi di nuovo spostata all’1 gennaio 2020 dal decreto sicurezza-bis, e poi ulteriormente prorogata all’1 marzo 2020 dal decreto legge del 23 dicembre 2019 del governo Conte-Bonafede. Che cambia radicalmente la riforma Orlando, ma che a sua volta ora in sede di conversione viene modificato (con altra proroga all’1 maggio 2020) non da un dibattito in Parlamento, strozzato sia nelle commissioni sia in aula, ma da un maxiemendamento governativo interamente sostitutivo, per giunta fatto approvare con l’imposizione di due voti di fiducia alla Camera e al Senato.
E pensare che sin dall’11 luglio 2018 lo slittamento era stato motivato dal ministro con «ragioni tecniche relative ai tempi necessari per l’esecuzione nelle Procure dei lavori per i supporti logistici e informatici per gli archivi riservati e le sale ascolto per gli avvocati»: ora quanto non è stato fatto in altri due anni dovrebbe essere completato in due mesi (sempre sotto clausola di invarianza finanziaria).
Senza peraltro, invece, che si affrontino questioni cruciali: l’esternalizzazione a società private delle intercettazioni, la subalternità sinora dell’amministrazione pubblica alle loro logiche tecniche ed economiche, la delocalizzazione dei loro sistemi «cloud» di archiviazione in Paesi non soggetti a giurisdizione italiana, l’attesa del software ministeriale e del decreto sui requisiti tecnici che dovranno avere i programmi proposti dalle società (vige ancora il decreto di aprile 2018, e due anni sono un’era geologica in questo settore). Fino alla scarsa consapevolezza negli stessi pm – denunciata il 12 febbraio dal procuratore di Napoli Gianni Melillo nella Scuola della Magistratura – della tendenza dei propri ausiliari consulenti tecnici a non cancellare i dati alla fine degli incarichi conferiti loro dalle Procure, e dunque così ad accumulare misconosciuti maxi-archivi “informali” (paralleli a quelli giudiziari “ufficiali” di cui tanto si occupa la legge) passibili di alimentare un mercato clandestino delle comunicazioni. Quello che – mentre le inchieste in media usano poi nel processo solo lo 0,2-0,7% del materiale intercettato, e i giornali pubblicano intercettazioni di estranei alle indagini solo nell’1,6% degli articoli di cronaca giudiziaria (stima degli avvocati penalisti Ucpi su 7.273 articoli campionati in 6 mesi del 2015) – rumina tutto il resto.

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