Sulle normative internazionali molti hanno sorvolato nel caso del conflitto tra russi e ucraini, appellandosi invece a quelle stesse norme nel caso del Medio Oriente
Il conflitto tra israeliani e palestinesi tocca da sempre corde emotive e prepolitiche. E sembra così produrre una specie di bug nei processi logici con cui parti anche avvedute della pubblica opinione affrontano la crisi nata dal pogrom del 7 ottobre. Questo malfunzionamento, che rischia di contaminare la ragionevolezza proprio di chi con più energia si proclama devoto a principi universali di umanità e democrazia, si coglie al meglio paragonando le posizioni attuali con quelle assunte al tempo dell’invasione di Putin in Ucraina.
Un atteggiamento assai radicato dopo il 24 febbraio 2022 era invitare Volodymyr Zelensky alla resa onde scongiurare un’inutile carneficina tra la sua gente: rinunciando, va da sé, all’indipendenza del proprio Paese di fronte alla forza preponderante del nemico. Questa corrente di pensiero, che nella sua componente in buonafede (ovvero lontana dal mero fiancheggiamento putiniano) era trasversale soprattutto a certo irenismo cattolico e a certo massimalismo di sinistra, prescindeva in toto dalla volontà degli ucraini. E, soprattutto, sorvolava sul diritto internazionale violato clamorosamente dall’invasore: a ciò si dedicavano parole di condanna sdegnate ma vacue, poiché, se non la pace a ogni costo, almeno la realpolitik doveva prevalere, gli ucraini se ne facessero una ragione.
Quasi le stesse voci della pubblicistica nostrana (e non solo) rovesciano completamente la posizione rispetto a Israele dopo la bestiale aggressione subita ad opera di Hamas, con 1.400 civili seviziati e uccisi, migliaia di feriti e almeno 240 rapiti attualmente detenuti nei tunnel di Gaza. A fronte di ciò, molti opinionisti ammoniscono il governo di Gerusalemme a fermare la durissima reazione contro la Striscia appunto nel nome del diritto internazionale, in questo caso tornato in auge in tutta la sua cogenza morale; senza che a nessuno di costoro venga però in mente di suggerire ad Hamas una resa incondizionata dei suoi miliziani e l’immediata restituzione degli ostaggi, onde evitare ulteriori lutti e sofferenze al popolo palestinese. Ma Hamas è un’organizzazione terroristica, si obietta, quasi a sollevarla così da ogni responsabilità, glissando su alcuni dettagli: Hamas non sta alla Palestina come le Bierre stavano all’Italia, ha vinto le elezioni del 2006 e governa Gaza da sedici anni dopo avere regolato i conti con Fatah manu militari; ha messo in piedi una forma di statualità, di burocrazia e di welfare, anche se sottrae al suo popolo gran parte degli aiuti internazionali per farne armi e se la ferocia messianica da cui è connaturata ne induce il leader politico, Ismail Haniyeh, a dichiarare da un lussuoso rifugio in Qatar che proprio il sangue di donne, vecchi e bambini palestinesi «deve essere sparso per rinvigorire la rivoluzione islamica».
Pur rammentando sempre che la più immediata responsabilità di quel sangue va in capo ai bombardamenti israeliani, è difficile non vedere nel dibattito pubblico un notevole doppio standard. Sulle cause del quale ha detto molto, in un’intervista a Marilisa Palumbo su queste colonne, lo scrittore Daniel Mendelsohn, cofirmatario di «A call for empathy», un appello a quella sinistra globale che, incapace di solidarizzare con Israele dopo l’aggressione del 7 ottobre, mostra quale epifenomeno università e piazze occidentali non solo schierate con la causa palestinese ma talvolta inneggianti al raid terrorista. Il problema, sostiene Mendelsohn, è che, marxianamente, la sinistra inquadra tutto in termini di potere: poiché chi è potente non può che essere cattivo e chi non ha potere non può che essere buono, Israele è cattivo e i palestinesi sono buoni, a prescindere. Un sillogismo che, a suo tempo, ha condotto persino un’intellettuale del calibro di Judith Butler (e, si parva licet, qualche leader di primo piano della sinistra italiana) a considerare Hamas come una forza progressista. La verità è che la più complessa questione da cui è travagliato il Medio Oriente non dovrebbe prestarsi a divisioni di fazione, risalendo alla difficile coesistenza tra comunità arabe e insediamenti ebraici già nell’Ottocento e nel primo Novecento.
Così come, purtroppo, la chiamata a raccolta attorno alle (sacrosante) ragioni del diritto internazionale suona un po’ ipocrita, perché mostra tutti i limiti d’una partita nella quale l’arbitro rimane talvolta negli spogliatoi o talaltra, peggio, indossa la maglietta di una delle squadre. Il primo caso porta ancora una volta all’Ucraina, sostenuta, sì, da Nato e Ue ma, di fatto, abbandonata dalle Nazioni Unite al di là delle vuote dichiarazioni a causa della nota paralisi del Consiglio di Sicurezza, dove siede in permanenza l’aggressore di Kiev. Il secondo caso ci conduce dritti dentro lo scenario mediorientale. Con risvolti paradossali. È ancora fresco lo sconcerto mondiale nel vedere incredibilmente indicato l’Iran per la guida del Forum sui diritti umani delle Nazioni Unite. Tra il 2006 e il 2022, annotava Davide Assael sul Domani, il Consiglio dell’Onu per i diritti umani ha adottato tredici risoluzioni contro l’Iran e novantanove contro Israele. Senza voler chiudere gli occhi sulla grave situazione in cui versano i palestinesi non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania a causa di un’espansione aggressiva delle colonie sempre sostenuta da Netanyahu, appare complicato attribuire credibilità a chi sorvola così generosamente su una teocrazia medievale che massacra le donne senza velo e viaggia su una media di centinaia di esecuzioni capitali l’anno. Se è vero, come ricorda Piero Ignazi, che il processo di civilizzazione umana si basa sul riconoscimento di regole comuni di convivenza, è ancor più vero che questi ottimi intendimenti restano sempre sulla carta, perché il diritto internazionale si è sempre incarnato nel diritto dei più forti o non è stato affatto. Si può fingere che non sia così. Ma invocarlo a corrente alternata è l’ultimo oltraggio alle già troppe vittime di questo secolo segnato dal disordine globale.