L’avvoccata e attivista: «Da sempre il regime usa le impiccagioni e la violenza come arma per spaventare. Ma non capisce che questi metodi fanno crescere la rabbia»
«Anche il vetro della tua lapide li infastidisce», scrive Ashkan Amini. Il giovane curdo iraniano di Saqqez si rivolge alla sorella con una storia su Instagram dove si vede il vetro in mille pezzi che proteggeva la fotografia della tomba di Mahsa Amini, uccisa il 16 settembre dalle guardie dell’ayatollah Khamenei.
Postare, denunciare, alludere che al regime il nome di Mahsa pesa come il piombo è affare di coraggio, in Iran. Per molto meno, vieni portato dentro, interrogato, torturato. «Questa generazione di giovani è eroica, più di noi», dice Shirin Ebadi, 75 anni, che ieri ha partecipato al Global Policy Forum organizzato da Ispi, università Bocconi e Oecd. Giudice, avvocata e attivista, nel 2003 è stata la prima iraniana e prima musulmana a ricevere il premio Nobel per la Pace. Ebadi sa che cosa significa vivere in un Paese in cui se sei donna non puoi esercitare la tua professione, in cui finisci in carcere con accuse inventate — lei ci è stata per 22 giorni — , dove sei costretta ad andartene se non vuoi morire. In esilio a Londra dal 2009, non ha mai smesso di lottare per un Iran laico e democratico. Quando a Oslo ha ricevuto il premio Nobel ha pronunciato queste parole: «La libertà e la democrazia non vengono mai serviti su un piatto d’argento».
Lei quanto ha pagato per la libertà?
«Molto, ma non mi sono mai pentita di quello che ho fatto. Anzi, se rinasco ripeto tutto. Continuerò a fare il possibile perché il regime cada. Smetterò di lavorare, di battermi per i diritti umani solo quando l’Iran sarà un Paese democratico».
Da qui, l’impressione è che quello che sembrava l’inizio di una grande rivoluzione abbia subito una battuta d’arresto. Pensa che sia solo un momento o la brutalità della Repubblica islamica ha vinto?
«Dovete pensare alla rivoluzione come a un treno sulle rotaie. Prima va veloce, poi rallenta, poi succede che si deve fermare anche in qualche stazione. La rivoluzione iraniana partita dall’uccisione di Mahsa Amini, negli ultimi mesi ha solo cambiato forma. All’inizio erano tutti in strada, adesso un giorno scendono in piazza gli operai per il loro salario da fame, il giorno dopo scioperano gli insegnanti. Il giorno dopo ancora i pensionati, poi gli studenti per un futuro migliore. Se la situazione fosse calma come sembra da fuori, per quale motivo avrebbero dovuto continuare ad avvelenare con il gas gli studenti nelle scuole?».
La scorsa settimana, tre uomini che avevano preso parte alle proteste sono stati impiccati e dal 21 aprile, in tre settimane, la dittatura ha giustiziato decine di persone non legate alle manifestazioni.
«In media, impiccano quattro persone al giorno. Da sempre il regime usa le impiccagioni e la violenza come arma per spaventare. Ma non capisce che questi metodi fanno crescere solo la rabbia. La Repubblica islamica non è abbastanza intelligente da ascoltare il proprio popolo, quindi, la miopia di decenni ha portato solo a una speranza comune: la fine della dittatura di Khamenei».
In passato, anche lei pensava che il Paese fosse riformabile, adesso sembra che nessuno creda più in una possibilità di riforma. Che cosa ne pensa?
«Sì, forse prima c’era una minima speranza che il regime cambiasse, però più è passato il tempo più abbiamo visto che non esiste modo di migliorare la dittatura. Le persone hanno provato tutte le forme pacifiche possibili, ma hanno anche visto che è stato inutile. Ora vogliamo cacciare il dittatore».
Alcuni sostengono la necessità di una lotta armata. Che cosa ne pensa?
«Non credo nella lotta armata, la storia ci ha dimostrato che questo tipo di azioni giustificano i regimi, diventano le scuse dell’oppressore per schiacciare i popoli. Sono felice che gli iraniani, fino a ora, stanno portando avanti una resistenza pacifica».
Lei e personalità come il principe Pahlavi e Masih Alinejad — tutti in esilio — avete fatto parte di una coalizione che si è sciolta ma che si proponeva da traghettatrice per andare verso un referendum. Pensa che la popolazione iraniana abbia bisogno di figure esterne per gestire una transizione?
«Qualunque transizione debba essere fatta, sarà compiuta dal popolo all’interno del Paese. Tutto quello che accadrà sarà per mano e volontà degli iraniani. L’opposizione fuori deve unirsi per aiutare a far crollare il regime ma non per decidere al posto di chi sta dentro. Anche Reza Pahlavi dice che lui non intende fare il leader ma crede in un referendum popolare per scegliere il prossimo sistema politico».
Che cosa si aspetta dalla comunità internazionale?
«Che i media parlino di quello che succede in Iran e mostrino la violenza che subisce il nostro popolo. E che i governi la smettano di fare affari con la dittatura».
Anche lei ha conosciuto la brutalità della Repubblica islamica.
«Sì, ma oggi è peggio. Più il regime si indebolisce più diventa feroce. Ma gli iraniani non hanno più paura di questi uomini».