«Ripetete il suo nome, Mahsa!» Ma anche Nika, 17 anni, che sui social cantava libera e ironica, Asra, 16, che non aveva voluto intonare l’inno a Khamenei, Sarina, 16 anche lei, presa a manganellate per strada davanti alla sua scuola di lingue. E il nome di tutte le donne e le ragazze (e gli uomini e i ragazzi, finalmente solidali) che hanno perso la vita (oltre 200 secondo le associazioni per i diritti umani) nelle proteste scatenate in Iran sei settimane fa dall’uccisione della 22enne Mahsa Amini, pestata dalla polizia per un velo «mal portato».
E di quelle che la vita la rischiano, o sono in carcere (tra loro anche la nostra Alessia Piperno), destinate a processi che non potranno mai essere equi (duecento ieri nella sola provincia di Alborz). «Ripetete il suo nome, Mahsa», hanno scandito sabato gli ottantamila di Berlino, le migliaia di Washington, Ottawa, Los Angeles (città dove vive la più grande comunità iraniana fuori dall’Iran), Toronto, e le centinaia che si sono riuniti anche nelle piazze italiane (e che torneranno a trovarsi a Milano anche sabato 29). Urlare i loro nomi non è solo un pigro gesto di solidarietà. Intanto perché a organizzare queste manifestazioni sono quasi sempre gli esuli iraniani, costretti a lasciare la patria, gli amici, le famiglie per sfuggire all’oppressione.
Come ha detto uno di loro — lo scrittore Hamed Esmaeilion, che ha perso moglie e figlia nel volo da Teheran al Canada forse abbattuto dai pasdaran nel gennaio 2020— a Viviana Mazza su questo giornale, il mondo deve «riconoscere che questa è una rivoluzione e aiutare gli iraniani perché il muro della Repubblica islamica crolli come il muro di Berlino». Su questa rivoluzione partita dal corpo e dalla forza delle donne, non è calato il sipario in Iran, dove le proteste continuano, e non deve calare da noi: l’aggressione all’Ucraina ci ha insegnato quali sono i tragici frutti dell’era dell’impunità di dittatori e regimi totalitari.