Nel documento delle commissioni Finanze restano i nodi della patrimoniale e del regime forfettario
Basta mettere in fila tutto quello che le tasse hanno rappresentato in termini di annunci e divisioni tra i partiti negli ultimi vent’anni in Italia per capire perché la bozza della riforma fiscale scritta dal Parlamento è una notizia. La carezza incompiuta di Silvio Berlusconi nei confronti del ceto medio, la difficoltà della sinistra di intercettare le fasce più fragili, la bandiera leghista della flat tax che non è stata issata. Ora la bozza non chiude molte questioni, a iniziare dall’assetto degli scaglioni dell’Irpef, e quindi la gazzarra è destinata a esplodere nelle prossime settimane, ma – e qui è la notizia – fissa una base comune: giù le tasse per 7 milioni di cittadini che fanno parte della cosiddetta terza fascia, quelli con redditi compresi tra 28mila e 55mila euro.
Fuori dalla prospettiva dei numeri, la notizia è data dal fatto che tutti i partiti sono d’accordo nel puntare su una platea definita, un volta chiamata ceto medio. Un’etichetta che nel frattempo si è disallineata rispetto ai tempi di un cambiamento che ha rimischiato tutto, ma che resta comunque valida per identificare i beneficiari dell’intervento. La traccia “politica” c’è e considerando il fatto che Mario Draghi ha più volte ribadito che la legge delega che il Governo presenterà entro fine luglio partirà dal lavoro del Parlamento, è più che probabile che questa traccia si trasformerà nella riforma fiscale dell’esecutivo. Qui finisce la notizia. E ne inizia un’altra: tutti convergono sulla necessità di abbassare le tasse che gravano sul ceto medio, tutti divergono sul metodo. Modello tedesco, flat tax, riduzione delle aliquote sono i titoli di disegni e idee molto differenti tra di loro.
Una rincorsa lunga 50 anni
È dal 1974, quando entrò in vigore il sistema fiscale disegnato dalla legge delega del governo Rumor del 1969, che non si mette mano in modo organico alle tasse. Quello che è venuto dopo sono stati interventi chirurgici o, peggio, approvazioni di leggi delega rimasti nella stragrande maggioranza monchi e quindi senza effetti concreti per i contribuenti. Il fatto che la bozza della riforma spazi dall’Irpef all’Iva, passando per la cancellazione delle mini tasse e da altri pilastri del sistema fiscale, è un altro elemento che attesta quantomeno il tentativo di dare una visione organica all’intervento che sarà imbastito dal Governo a luglio.
L’obiettivo, messo nero su bianco dalle commissioni Finanze di Camera e Senato, guidate rispettivamente da Luigi Marattin e Luciano D’Alfonso, è innanzitutto spingere la crescita. Oggi è affossata per diverse ragioni, tra le quali spicca una tassazione sul lavoro imponente (l’aliquota al 42,7% è la terza più alta in Europa a fronte di una media Ue del 38,2%), ma come il sistema fiscale attuale fa male alla crescita lo spiegano bene anche le aliquote marginali troppo alte e troppo superiori all’aliquota media: “Pongono – si legge nella bozza – problemi di incentivi all’offerta di lavoro ed amplificano le distorsioni del sistema di tassazione individuale in termini soprattutto di equità orizzontale”. L’altra mission è semplificare: il sistema è troppo complesso e non è percepito come equo e affidabile.
Le modifiche all’Irpef
Le due commissioni parlamentari concordano sul fatto che “la struttura dell’Irpef vada sostanzialmente ridefinita”, adottando in particolare “l’abbassamento dell’aliquota media effettiva con particolare riferimento ai contribuenti nella
fascia di reddito 28.000-55.000″. Ma – indicazione correlata alla prima – bisogna anche modificare la dinamica delle aliquote marginali effettive con l’obiettivo di eliminare “le discontinuità più brusche”. Per capire quanto pesano le aliquote marginali basta pensare che per i lavoratori dipendenti la media supera il 40% già intorno ai 17mila euro di reddito. Addirittura sono superiori alla massima legale (43%) per oltre il 20% dei dipendenti che lavorano da almeno un anno.
Tra i punti ancora indefiniti ci sono le addizionali Irpef regionali e comunali: non è ancora chiaro se l’Irpef che sarà ridisegnata le contemplerà ancora.
Via la tassa per la laurea e altre piccoli balzelli
I cosiddetti micro prelievi, sia a livello centrale che a livello territoriale, hanno un gettito inferiore allo 0,01% del totale delle entrate tributarie per lo Stato e sotto lo 0,1% per Regioni e Comuni. Sono imposte, tasse e diritti che ora si punta a cancellare. Cestinare o comunque sfoltire una massa che tiene dentro il superbollo, ma anche la tassa per la laurea, l’imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili civili, ancora l’imposta sugli intrattenimenti e tante altre.
La flat tax per le partite Iva ancora da definire. Resta anche il nodo della patrimoniale
Al punto 2.5 del documento c’è solo un titolo: “Il regime forfettario”. Non c’è però un’indicazione sulla direzione da seguire per la flat tax destinata alle partite Iva. L’accordo politico tra i partiti non c’è ed è scritto senza troppi fronzoli subito dopo: “Nodo politico da chiarire”. Altra questione aperta è il “riordino della tassazione patrimoniale a parità di gettito”: anche questo è indicato come un nodo politico da sciogliere.
Stop all’Irap
Le ragioni per superare l’imposta regionale sulle attività produttive sono spiegate così: “Una riforma che si ponga come principale obiettivo lo stimolo alla crescita non può esimersi dal considerare in modo critico una imposta che ha come base
imponibile la remunerazione dei fattori produttivi, la cui accumulazione è – insieme alla dinamica della produttività totale dei fattori – la determinante della crescita economica”. La base imponibile dell’Irap negli anni si è avvicinata a quella di altre imposte, come l’utile di bilancio per le imprese in contabilità ordinaria, e anche se sussistono delle differenze minime, è comunque una tassa anti crescita. La via indicata è assorbire il gettito dell’imposta nei tributi attualmente esistenti.