Valori da difendere anche per quella parte non piccola di gazawi che ha subìto la tirannia di criminali come Yahya Sinwar e Mohammed Deif e che adesso ne patisce conseguenze smisurate
La strage di Rafah, un dramma nel dramma dei civili di Gaza, mostra con tutta la forza evocativa delle immagini il crinale lungo cui si muove oggi la travagliata democrazia israeliana. Si sapeva che sarebbe accaduto qualcosa del genere, in questa scala di orrore. Per quanto «mirate» possano essere le operazioni dell’Idf contro i battaglioni di Hamas, quasi otto mesi di guerra rovente in un piccolo territorio popolato da oltre due milioni di anime non riescono certo a garantire la sicurezza degli innocenti, specie se i terroristi se ne fanno usbergo.
La disputa sul numero dei civili uccisi (trentaseimila secondo il regime islamista che governa la Striscia da quindici anni; circa la metà, secondo Gerusalemme, combattenti esclusi) non può avere una decente collocazione nel dibattito pubblico: fossero anche «soltanto» mille donne e bambini, cosa cambierebbe? Ma l’incendio di domenica sera, appiccato nella tendopoli di Tal al-Sultan dagli effetti d’un raid aereo che si proponeva di colpire due capi dei miliziani e i loro complici, con decine di rifugiati arsi vivi in un’area dichiarata sicura dagli stessi volantini dell’Idf è, indiscutibilmente, una soglia. Non solo per le prevedibili reazioni di condanna arrivate anche da alleati storici di Israele come gli Stati Uniti o dalla sempre frammentata Unione europea (dove c’è chi avanza addirittura ipotesi di sanzioni).
Lo è perché propone icasticamente l’ingiustizia di un danno inferto a chi, e sono molti, non s’è certo arruolato nelle schiere del terrorismo islamico e chiede soltanto un posto sicuro per sé e per la propria famiglia in fuga: quella parte non piccola di gazawi che ha subìto, sia pure in un’area di silenzio-assenso, la tirannia di criminali come Yahya Sinwar e Mohammed Deif e che adesso ne patisce conseguenze smisurate.
Tutto questo non può non pesare: comela profezia di Thomas Friedman all’indomani del 7 ottobre sul rischio che una reazione troppo dura al pogrom nei kibbutzim di confine e nel Negev (1200 israeliani uccisi, seimila feriti, stupri seriali e 250 ostaggi) cacciasse lo Stato con la Stella di David dentro una trappola congegnata dai suoi nemici per renderlo inviso al mondo. C’è di sicuro un alto tasso d’ipocrisia nel chiedere a Israele di combattere con una mano legata dietro la schiena nel nome della nostra comune civiltà. E tuttavia, per quanto difficile appaia, è proprio ciò che Israele dovrebbe fare: preservare l’umanità anche per conto del suo nemico; ricordare ogni giorno il rigido codice etico del proprio esercito e i dettami stessi del Talmud, che non discrimina tra appartenenze quando rammenta il valore universale di una singola vita da salvare; rinunciare a due omicidi mirati per proteggere donne e bambini sullo sfondo.
Esistono, e non vanno dimenticate, differenze fondamentali. Come ha ricordato su queste colonne il nostro Davide Frattini, la procuratrice militare Yifat Tomer-Yerushalmi sta investigando su 70 casi di possibile violazione della legge di guerra durante il conflitto e su abusi nei campi di detenzione dove sono richiusi i palestinesi catturati dopo il 7 ottobre. Si tratta di indagini non di facciata, perché sostenute da media indipendenti e dall’apparato democratico dello Stato.
A fronte di ciò, Hamas propone sin dall’inizio, dal fatale Sabato Nero, l’ostensione mediatica della ferocia sulle famiglie aggredite nei kibbutzim e sui giovani pacifisti assaliti nel rave del Negev, la celebrazione dei boia con le mani lorde di sangue, video raccapriccianti su ostaggi tuttora prigionieri, l’infame detenzione nei tunnel di una ventina di ragazze ancora violentate nel momento stesso in cui le diplomazie vanno parlando di tregua.
Bene. Ma, se queste sono le differenze, la maggiore insidia per Israele si trova dentro Israele. Una tabe scava nelle coscienze e ha portato parte della destra israeliana, quella messianica legata ai vari Smotrich e Ben-Gvir, a inneggiare al rogo della tendopoli di Rafah, sragionando né più e né meno come gli islamisti dall’altro lato della barricata. Allison Kaplan Sommer si domanda su Haaretz, la voce più progressista, se questa sia «la vera faccia di Israele». È una faccia truculenta come quella di Ynon Magal, conduttore di «The Patriots» sulla rete filogovernativa israeliana Channel 14, o di Naveh Dromi, editorialista su Channel 12: entrambi hanno salutato con scherno l’incendio della strage, «buona festa!», celebrandolo come «il falò centrale di quest’anno a Rafah» (domenica era anche la ricorrenza ebraica di lag Ba’Omer e dei suoi falò rituali). Molti hanno condannato i loro post, molti li hanno condivisi.
Dire che questi mesi saranno decisivi per la democrazia israeliana, l’unica, e perciò a noi più cara, in un’area tuttora affollata di autocrazie, monarchie assolute e dittature teocratiche, non appare insomma eccessivo.
Per parte nostra, sarà importante continuare a distinguere: coniugando il diritto sacrosanto di critica a Netanyahu e alle sue scelte con i diritti, certo non meno sacrosanti, dei nostri compatrioti di fede ebraica e di chiunque voglia sostenere le buone ragioni di Israele. «L’antisemitismo è una minaccia alla sicurezza nazionale», a rischio è la nostra coesione sociale: il fatto che in pubblico l’abbia detto con franchezza solo un ex generale dei carabinieri, Pasquale Angelosanto, scelto dalla premier Meloni per coordinare la lotta all’odio antiebraico, deve far riflettere. Se non altro, sulla perdurante difficoltà dei politici nostrani a dare un nome alle cose.