Fonte: Corriere della Sera
di Lorenzo Cremonesi
Le radici della «Terza Intifada»: lo status quo nato nel 1967, la colonizzazione sionista, il crollo delle convinzioni di Trump. La comunità internazionale è divisa e incerta
L’ondata di violenze che sta investendo Israele e i territori palestinesi sembra porre fine alla convinzione maturata durante l’amministrazione di Donald Trump per cui fosse possibile pacificare la regione senza risolvere direttamente, o comunque non prendere in considerazione, uno dei suoi nodi cruciali da decenni. La «Terza Intifada» (come già molti analisti definiscono gli scontri dilagati degli ultimi giorni richiamando quelle esplose nel 1987 e poi nel 2000) nasce da tensioni reali, radicate nella storia di un territorio carico di simboli antichi, quali i luoghi santi a Gerusalemme, e incancrenite nell’instabile status quo venutosi a creare dopo la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, le cui premesse risalgono alla nascita di Israele nel 1948 e persino prima: ai tempi della iniziale colonizzazione sionista a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ma, oggi più che mai, la comunità internazionale sembra annaspare, divisa e incerta sul da farsi.
Usa e Europa: le divisioni nella comunità internazionale
Si congela il «patto di Abramo», che soltanto dieci mesi fa Donald Trump declamava come passo vincente per alleare Israele alle economie del Golfo e farne volano per la rinascita di un futuro Medio Oriente prospero e pacificato. Al suo posto, Joe Biden, non riesce però a farsi ascoltare. Il suo appello alla calma nelle ultime ore raccoglie critiche molto simili, seppure da punti di vista assolutamente opposti, sia da Israele che dai palestinesi. Lo giudicano troppo cauto, inadeguato alla gravità dei fatti sul terreno, troppo attento ad ascoltare le ragioni di entrambi senza la determinazione necessaria a scendere in campo spendendosi per una vera mediazione. L’Europa è ancora più evanescente. «Violenza e incitamento allo scontro sono inaccettabili. Tutti i responsabili vanno puniti», recita il comunicato Ue all’Onu, che non indica però alcun passo concreto. Per contro, proprio nella crescita incontrollata del livello dello scontro si fanno sentire le posizioni turco-iraniane, che sostengono la guerriglia di Hamas anche come strumento di rilancio della loro politica estera in difesa della comunità musulmana nel mondo. In questo complicato gioco delle parti, non manca la presenza della Russia di Putin, ma anche dello stesso Benjamin Netanyahu, che approfitta del caos per puntellare la sua traballante posizione di premier e di Abu Mazen, ben contento di rinviare per l’ennesima volta le elezioni nei territori palestinesi, che sarebbero altrimenti vinte dagli islamici di Hamas.
Il dossier Israele sul tavolo del neopresidente Joe Biden
La speranza del neopresidente Biden sarebbe stata quella di concentrarsi sulla Cina e sullo scacchiere del Pacifico, lasciando il dossier Medio Oriente sul fondo del cassetto. I fatti provano che non è possibile. Come nota il «New York Times», sua priorità diventa adesso nominare al più presto un nuovo ambasciatore per i rapporti con Israele, oltre a un diplomatico capace al consolato di Gerusalemme est per quelli con i palestinesi. Entrambe le sedi sono vacanti. A parole, Biden aveva già fatto capire che le sue politiche sarebbero state diverse rispetto a Trump. Intendeva ripristinare l’accordo sul nucleare con l’Iran stipulato nel 2015, poi cancellato da Trump tre anni dopo, e soprattutto riallacciare le relazioni con i palestinesi. La mossa di riconoscere Gerusalemme «capitale di Israele» nel dicembre 2017, oltre a quelle di sostenere l’occupazione israeliana delle Alture del Golan e le colonie ebraiche nei territori occupati, avevano del tutto congelato i rapporti con la parte palestinese. A tutti gli effetti, Trump stava avvallando il vecchio progetto della destra israeliana per l’annessione dei territori occupati nel 1967. Un progetto che Biden ha sempre rifiutato, sin da quando era vicepresidente nell’amministrazione Obama e rivendicava la necessità di «due Stati» sui confini del 1967.
Israele, la caducità degli accordi di Abramo
L’incancrenirsi della battaglia per Gerusalemme, oltre alle bombe su Gaza sono causa di grande imbarazzo tra gli Emirati, i dirigenti del Bahrein, in Sudan e Marocco. Sono i firmatari degli accordi di Abramo, tutti Paesi sunniti, dove l’elemento islamico fa da collante allo Stato. Ovvio che le sofferenze dei «fratelli di fede» in Palestina dovranno essere ascoltate, anche per evitare che i leader dei Fratelli Musulmani locali le utilizzino per rilanciare il proprio ruolo di oppositori. La speranza di Trump era di poter allargare il «Patto di Abramo» all’Arabia Saudita e all’intero Medio Oriente. Biden sarà costretto a tenerlo nel più basso profilo possibile per evitare che si sfasci del tutto.
Turchia, il sultano protettore dei Luoghi Santi
Non stupisce che nelle ultime ore Recep Tayyip Erdogan abbia telefonato a Vladimir Putin e che le sue frasi siano state pubblicizzate dai media di Ankara. «Occorre che la comunità internazionale dia una lezione a Israele», ha tuonato. Gerusalemme e tutti i territori compresi tra il Giordano ed il Mediterraneo erano parte dell’ex Impero Ottomano. Vale qui lo stesso principio che in Libia o nella Siria nord-orientale: il presidente turco aspira ad avere voce in capitolo nelle vecchie province ottomane. Un ruolo che, per ragioni di pragmatica e spregiudicata politica anti-Nato, Putin per ora è disposto a lasciargli. Erdogan fu ben contento di sostenere Hamas sin dal tempo della sua vittoria elettorale a Gaza contro l’Olp di Abu Mazen nel 2006. Secondo i media israeliani, i suoi finanziamenti sono massicci. Nel 2010 rischiò lo scontro armato quando i commando israeliani uccisero 10 turchi sulla Navi Marmari, la nave turca che stava cercando di violare il blocco e portare aiuti umanitari a Gaza. L’anno dopo giocò da mediatore tra Netanyahu e Hamas per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit in cambio di 1.027 prigionieri palestinesi. Tra questi, almeno 10 comandanti di Hamas trovarono rifugio a Istanbul e la considerano oggi una «seconda casa» per le loro cellule all’estero.
Iran ed Hezbollah
Le ondate fitte di missili e razzi lanciati da Gaza contro le città israeliane danno sostanza agli incubi paventati dall’intelligence israeliana nel 2006. Allora infatti Israele rimase sorpreso dalle capacità offensive della milizia sciita dell’Hezbollah libanese. Finanziata e armata dai Pasdaran dell’ex comandante iraniano Qassem Solimani (ucciso dagli americani il 3 gennaio 2020 a Baghdad), l’Hezbollah sotto attacco si dimostrò un avversario formidabile. Da allora più volte il Mossad e l’intelligence militari hanno rivelato arrivi di missili iraniani a Gaza tramite i corrieri di Hezbollah nel Sinai. I dirigenti del regime degli Ayatollah ribadiscono ora la «necessità di cancellare l’entità sionista razzista». Anche l’intelligence americana condivide con quella israeliana la valutazione per cui, nonostante la grave crisi economica interna, Teheran invia annualmente aiuti militari pari a un miliardo di dollari ad Hezbollah e circa 100 milioni ad Hamas.