Il tabù (poi sfatato) dell’espulsione, la scelta occidentale, le guerre: i primi vent’anni. Il ricordo della Shoah e il dramma della Nakba, nel secondo dopoguerra tormentato dai «due miti»
«Che cosa dobbiamo fare della popolazione araba rimasta nelle sue case?», chiesero Yigal Allon, Ytzhak Rabin e altri tra i giovani comandanti del neonato esercito israeliano a David Ben Gurion. Si era nel pieno delle battaglie per Lidda e Ramleh nel luglio 1948. Le forze ebraiche stavano vincendo, eppure ancora attorno alle colline di Gerusalemme la Legione giordana resisteva sulle mura della Città Vecchia e dalle alture di Jenin le sue unità, rinforzate dal corpo di spedizione iracheno, minacciavano le comunicazioni per Haifa. Da sud gli egiziani restavano attestati nel Negev.
Gli arabi allontanati
La presenza di una sacca di popolazione araba ostile sulla strada strategicamente vitale che univa Tel Aviv a Gerusalemme poteva rappresentare un pericolo. «Ben Gurion fece un gesto deciso della sua mano che diceva: buttateli fuori…», notava Rabin nelle sue memorie. In poche ore oltre 50.000 persone, compresi vecchi e bambini, furono costretti «con la forza» a marciare nel caldo per una trentina di chilometri per raggiungere le colline della Cisgiordania. Sino a oltre tre decadi fa questo era uno dei testi più noti che parlava esplicitamente di un preciso piano di espulsione della popolazione araba durante la Guerra d’Indipendenza israeliana. Lo aveva scritto un soldato pluridecorato, che era stato ai vertici dell’esercito, destinato ad essere due volte premier e che sarebbe stato assassinato nel 1995 da un estremista ebreo contrario ai negoziati con Yasser Arafat in nome della divisione della terra in cambio della pace. Ma la prima pubblicazione nel 1979 era stata tenuta sottotono: per lungo tempo in Israele parlare dell’espulsione forzata degli arabi fu un tabù. La propaganda ufficiale narrava di fughe precipitose, di panico diffuso, di interi villaggi convinti a partire dai capi della resistenza palestinese locale e degli eserciti arabi con la promessa che «dopo la vittoria sarebbero tutti tornati».
In fuga
Ci sarebbe voluto il fenomeno dei cosiddetti «nuovi storici» dall’inizio degli anni Ottanta — intellettuali come Benny Morris, Tom Segev, Avi Shlaim, Meron Benvenisti e tanti altri — che in alcuni libri fondamentali hanno progressivamente smontato uno dei dogmi originari di Israele. Lavorando soprattutto negli archivi locali (in genere le fonti arabe sono chiuse), dimostrarono che sin dalla fine del 1947 crebbe il progetto di limitare al massimo il numero di arabi nei territori del nascente Stato ebraico. Oggi è ormai generalmente accettato che oltre 700.000 arabi furono scacciati dai territori di Israele. A facilitare l’operazione fu tra l’altro l’emigrazione volontaria nei mesi precedenti delle classi medio-alte verso Beirut, Damasco, Amman o Il Cairo. Medici, ingegneri, avvocati, maestri di scuola, proprietari terrieri e gran parte del corpo dirigente del popolo palestinese, così come era venuto sviluppandosi dal collasso dell’Impero Ottomano e sotto il Mandato Britannico, rafforzato nella sua identità nazionale dalla lotta contro il sionismo, di fatto scapparono, preferirono trovare rifugio all’estero. I fellahim abbandonati a loro stessi ebbero ben poca speranza di resistere. Ma c’è di più: gli eserciti arabi accorsi con lo slogan ipocrita di sostenere i palestinesi non ebbero alcun coordinamento tra loro. Anzi, fecero a gara per occupare intere regioni a scapito degli «alleati». Re Abdallah di Giordania aveva stretto accordi segreti con Golda Meir, che travestita da beduino era andata a trovarlo nel suo quartier generale. Tanto che nel 1950 lui si sarebbe annesso Cisgiordania e Gerusalemme est. Una mossa contestata dai palestinesi e pagata con la vita: venne assassinato l’anno dopo da un jihadista dei Fratelli Musulmani legato al Mufti di Gerusalemme — Amin Al-Husseini, che dagli anni Venti guidava la resistenza palestinese — mentre pregava nella moschea Al Aqsa della città santa.
Alleati storici
Furono gli Stati Uniti a riconoscere per primi de facto Israele all’Onu il 14 maggio 1948. Ma l’Unione Sovietica lo riconobbe de jure già tre giorni dopo. Il nuovo Paese era soprattutto concentrato ad accogliere gli scampati alla furia nazista, qualsiasi tipo di aiuto da ovunque arrivasse era benvenuto. Dal 1945 alla nascita dello Stato erano arrivati in 100.000, almeno 70.000 sopravvissuti ai campi di sterminio che dovettero sfidare i divieti del mandato inglese. Emerse però una realtà terribile: la quasi totalità dei cittadini potenziali in Europa era morta nell’Olocausto. Fu allora che si decise di favorire l’immigrazione degli ebrei dai Paesi arabi. Nei primi 4 anni di esistenza dello Stato la dirigenza askenazita lavorò per accogliere le masse sefardite, che rappresentarono oltre la metà dei migranti. Nacquero forti tensioni sociali destinate a incancrenirsi.
Inizialmente non fu neppure chiaro che scelta avrebbe fatto Israele nel contesto della Guerra Fredda. Per qualche tempo la dirigenza sovietica lo guardò come un alleato. Le armi russe giunte tramite il ponte aereo dalla Cecoslovacchia avevano aiutato a vincere. Molti dirigenti sionisti venivano dalle province dell’Urss, il kibbutz (che non raggiunse mai il 6 per cento della popolazione, ma per un paio di decenni incarnò i valori collettivi) s’ispirava ai modelli economici socialisti. Per contro, gli americani erano legati alle monarchie arabe conservatrici e a lungo Washington non dimostrò troppo entusiasmo. Fu soltanto durante la Guerra di Corea che Ben Gurion scelse senza ambiguità di stare nel campo Occidentale.
Incubi e conflitti
Nacquero allora i due miti fondativi rispettivamente dello Stato ebraico e della resistenza palestinese: la Shoah, lo sterminio; e la Nakba, la catastrofe dell’espulsione dalla propria terra. Israele era lo Stato nato per difendere tutti gli ebrei. L’incubo della Shoah divenne un’ottima motivazione per legittimare la propria difesa muscolare. Un concetto ribadito con forza ai tempi del processo contro Adolf Eichmann nel 1961. Allora la filosofa Hannah Arendt denunciò il pericolo di una strumentalizzazione della tragedia ebraica per motivi politici. «Non c’è stato leader arabo nemico che non sia stato paragonato a Hitler», sostiene spesso Tom Segev. Da qui il concetto israeliano della guerra di «ein breirà», senza alternativa, da combattere e vincere a tutti i costi, ad ogni prezzo, per evitare il ripetersi dell’Olocausto.
Il Canale della discordia
Da allora è stata per esempio di «breirà», di scelta, la guerra del 1956. Allora Israele optò di allearsi a Francia e Inghilterra contro il regime egiziano di Gamal Abdel Nasser. Un conflitto di stampo coloniale per il controllo del Canale di Suez, che si risolse in un flop totale e vide Washington intervenire per costringere Israele ad abbandonare il Sinai e la striscia di Gaza appena conquistati. Gli storici locali dibattono invece ancora adesso se la Guerra dei Sei Giorni sia stata inevitabile, cioè esistenziale come quella del 1948, oppure una «breirà» che poteva essere evitata. Nasser, a questo punto leader carismatico della decolonizzazione e del pan-socialismo arabo, aveva fatto dell’Egitto le testa di ponte dell’influenza sovietica in Medio Oriente e della lotta contro Israele. Prigioniero della sua retorica, chiuse Suez agli israeliani e bloccò l’accesso a Eilat dal Mar Rosso. Fu il casus belli: all’alba del 5 giugno 1967 gli israeliani attaccavano di sorpresa l’aviazione egiziana annientandola, poi passarono a colpire la Siria. Chiesero a re Hussein di Giordania di non intervenire. Lui rispose bombardando Gerusalemme ovest. Sei giorni dopo la vittoria israeliana aveva totalmente rivoluzionato il Medio Oriente.