19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Francesco Battistini e Milena Gabanelli

La pace impossibile. Uno dei più lunghi conflitti della storia moderna. L’origine di tutti i focolai in Medio Oriente. Dal 1946 a oggi, l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato 700 risoluzioni, più di 100 ne ha votate il Consiglio di sicurezza. La comunità internazionale ha esaminato almeno 20 piani di pace. Ma dopo 54 anni d’occupazione dei Territori palestinesi, adesso che fra arabi e israeliani siamo entrati nella dodicesima guerra in più di 70 anni, qualunque soluzione sembra lontanissima.

Sette anni di calma
Era dall’estate 2014 che non si sentivano squillare le sirene con tanta frequenza. Una quiete, solo apparente, perché negli ultimi sette anni quasi 200 palestinesi sono rimasti vittime d’attacchi aerei o d’operazioni di terra; diversi soldati israeliani sono stati uccisi, con decine di civili feriti, e 163 attentati a quei coloni ebrei che, dal 1967, hanno progressivamente occupato la Cisgiordania. E 1.920 palestinesi sono stati feriti dalla polizia, con 8.139 uliveti di proprietà araba vandalizzati dai coloni. Come mai questa linea è stata superata proprio ora?  Da una parte c’è Netanyahu, al quinto mandato, bersagliato da inchieste per corruzione, frode e abuso d’ufficio, e senza una maggioranza di governo. Dall’altra parte, i palestinesi che restano divisi. In Cisgiordania, dal 2006 è presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, 85 anni, leader del partito Fatah, ma il suo mandato è scaduto da dodici anni: non si va mai alle urne perché tutti i sondaggi prevedono una vittoria del movimento islamico di resistenza Hamas. Nato negli anni ’80, durante la protesta palestinese della Prima Intifada, nel 2006 prese il controllo della Striscia di Gaza. È un movimento che dichiara incompatibile Israele con una Repubblica islamica di Palestina. E Israele, al pari degli Usa e della Ue, lo considera un’organizzazione terroristica.

Gli amici di Hamas
È questa spaccatura palestinese a spiegare perché, negli ultimi quindici anni, il conflitto si sia concentrato sempre su Gaza. Hamas gode dell’amicizia d’un grande sponsor politico come la Turchia di Recep Erdogan, che dal 2010 tenta di forzare il blocco israeliano intorno alla Striscia. Secondo i servizi israeliani e lo stesso Abu Mazen, però, oggi è l’Iran il grande amico di Hamas. Il finanziamento diretto è per circa 6 milioni di dollari al mese, arrivati fino a 30 negli ultimi due anni. Una cifra versata attraverso gli islamici di Hezbollah che controllano il Sud del Libano. Gli Hezbollah sono sciiti come gli ayatollah di Teheran e si battono, come Hamas, per la distruzione del vicino Israele.

2015: accordo sul nucleare
Dunque per Netanyahu, gli iraniani sono il nemico numero uno. A causa del programma atomico, ripreso nel 2002, che secondo l’Onu ha anche scopi militari e viola il Trattato internazionale di non proliferazione nucleare.
Nel 2015 i cinque Paesi del Consiglio di sicurezza Onu, Germania e Ue, hanno firmato con l’Iran un accordo voluto dal presidente americano Obama e osteggiato da Netanyahu, che prevede tra l’altro la fine delle sanzioni economiche imposte dall’Occidente a Teheran. Quel patto è stato una svolta. Ha normalizzato le relazioni tempestose con l’Iran
È da quel momento che contro Israele si sono raffreddate anche le ostilità di Hamas e del piccolo gruppo sunnita che lo fiancheggia, il Movimento per il Jihad in Palestina responsabile di molti attacchi suicidi e finanziato, pure lui, dagli Hezbollah filoiraniani.

2018: l’inversione di Trump
Poi è arrivato Trump, che nel 2018 ha stracciato l’accordo sul nucleare. Non solo: trasferisce l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendola come capitale unica e indivisibile d’Israele. E ha ribaltato le alleanze, riavvicinandosi ai tradizionali alleati dell’Arabia Saudita, grandi nemici tanto dell’Iran quanto della Turchia.

L’inversione a U americana è stata la grande vittoria diplomatica di Netanyahu
E infatti dopo di essa, con la stessa puntualità con cui s’erano fermati, sono ricominciati fra Israele e Teheran gli scontri per aria (colpite in Siria le postazioni delle milizie sciite, finanziate dall’Iran), per mare (con incursioni sui cargo israeliani e sulle petroliere iraniane che transitano per il Golfo d’Arabia) e per terra, con due attentati alle centrifughe nucleari di Natanz. Dall’Iran, sono ripartite verso Gaza forniture d’armi sempre più sofisticate. E dopo dieci anni, è ripresa la campagna di eliminazione degli scienziati iraniani che lavorano al nucleare: il 27 novembre scorso è stato ucciso Mohsen Fakhrizadeh, capo del programma atomico di Teheran. Un assassinio che è seguito a quello, nel gennaio 2020, del generale Qassem Soleimani, il potente capo delle Guardie della Rivoluzione, colpito sulla sua auto da un drone americano.

Pioggia di dollari
La rottura definitiva dell’amministrazione Trump con l’Iran ha portato, il 13 agosto 2020, alla cosiddetta «Pace di Abramo»: l’accordo tra Israele e i più ricchi dei Paesi arabi, Emirati e Bahrein, di tradizione musulmana sunnita e quindi contrapposti agli sciiti iraniani.
La «Pace di Abramo» ha un significato politico ben preciso e serve a dirci una cosa: che la soluzione dei Due Popoli e Due Stati, ipotizzata dagli accordi di pace di Oslo e firmata nel 1993 da Rabin e Arafat, non è più una condizione
In altre parole: il mondo arabo non si impunta per contendersi Gerusalemme, i confini restano quelli di oggi senza tirare più in ballo quelli precedenti la guerra dei Sei Giorni del 1967, e i profughi del 1948 in Libano e Giordania restano dove stanno. L’accordo – ammesso che il presidente Joe Biden voglia mantenerlo – prevede una pioggia di soldi sulla Cisgiordania di Abu Mazen, sempre più corrotta e dipendente dagli aiuti internazionali: 50 miliardi di dollari in investimenti stranieri per i prossimi dieci anni, assieme alla promessa d’un Pil raddoppiato entro il 2030, d’un milione di posti di lavoro, della povertà ridotta del 50%, d’un export schizzato dal 17 al 40% del Pil, d’un ranking della Banca mondiale pari a quello del Qatar.

L’avanzata degli insediamenti
Non è detto che i soldi bastino. E basti un accordo disegnato a tavolino nel 2020, peraltro senza i palestinesi. Il pericolo d’una Terza Intifada, se mai scoppierà, è legato a quel che s’è mosso in questi anni di tregua armata. Il complotto di corte contro il re di Giordania — che in aprile ha portato all’arresto del fratellastro del sovrano Abdallah, sospettato di voler rovesciare una famiglia regnante dove la regina (Rania) è una palestinese — anche questo rientra nei timori d’un allargamento della questione palestinese, dove i profughi dalla Cisgiordania sono il 70%. Il sogno d’Abramo rivela i suoi limiti. Due dei tre Paesi che hanno aderito — Emirati, Bahrein — hanno già protestato per le bombe su Gaza. E intanto nei Territori palestinesi non s’è fermata la sistematica violazione dei diritti umani, assieme alla politica degli espropri e degli insediamenti illegali d’Israele. «Più che coi nemici, mi sembra di trattare con agenti immobiliari», un giorno ironizzò amaro il negoziatore palestinese Saeb Erekat, calcolando il tempo a favore delle betoniere che costruiscono insediamenti: nel 2025, i coloni saranno più di 700mila. Un settimo della popolazione palestinese in Cisgiordania. A quel punto sarà la geografia, prima di qualsiasi guerra con Hamas, a impedire definitivamente la nascita di uno Stato palestinese.

E l’Europa
Piccola postilla. C’era una volta la Ue, che si batteva per il rispetto degli accordi di Oslo. «Ormai il conflitto coinvolge più gli euro che l’Europa», disse il famoso mediorientalista, Nathan Brown. E infatti ci laviamo la coscienza finanziando l’Autorità palestinese, che senza i nostri soldi non vivacchierebbe: abbiamo evitato di disturbare il manovratore politico, finché era solo l’America, ma i giochi adesso possono farsi più complessi. Le guerre, più dure. E agli europei si chiederebbe un ruolo diverso.

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