Fonte: Sole 24 Ore
di Carlo Marroni
Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istituto nazionale di statistica, parla dell’invecchiamento generale della popolazione italiana
C’è un dato che spicca su tutti: i nati in Italia nel 2021 per la prima volta scenderanno sotto la soglia dei 400mila. Un tassello (ulteriore) nel trend di declino demografico del nostro Paese, un fenomeno ben noto ma non per questo meno grave e urgente e che, tuttavia, non è irreversibile.
Un paese che invecchi
Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, è chiaro: «Il sistema politico e quello economico devono muoversi per tempo, altrimenti la prospettiva per l’Italia non è solo l’invecchiamento generale della popolazione, di cui si parla tantissimo ma alla fine sembra che non sia un vera emergenza, ma anche un serio rischio per la nostra economia».
Blangiardo – professore emerito di demografia, dal 2019 alla guida dell’Istituto Nazionale di Statistica – in una conversazione con il Sole 24 Ore mette in fila i nodi strutturali della natalità, con un quadro che non lascia dubbi sull’urgenza del tema, che non può essere certo risolto con un decreto-legge, e proprio per questo alla fine messo sempre da parte come tutte le politiche a lungo termine che non generano un dividendo immediato in termini di consenso.
Nel 2021 prosegue il trend negativo
«I nuovi nati in Italia dal 2014 sono in forte calo. Nel 2020, l’anno orribile della pandemia, si è arrivati a 404mila, e secondo le mie valutazioni il 2021 si chiuderà entro un range 385-395mila nascite. È un trend in atto da tempo, ma questo ulteriore calo possiamo dire che è effetto della seconda ondata della pandemia di ottobre-novembre dello scorso anno».
La popolazione italiana già da due anni ha sfondato al ribasso la soglia dei 60 milioni, e ora si avvia rapidamente verso i 59 milioni, se i numeri continuano di questo passo. «Con il passare del tempo la popolazione perde la sua fisionomia iniziale: stante l’aspettativa di vita alla nascita di circa 80 anni, 400mila nascite sono compatibili con una popolazione che nel lungo periodo si ferma a poco più di 30 milioni, non di 59 come è adesso».
Gli effetti sul Pil
Quindi se non si mettono in campo politiche pubbliche serie è questa la prospettiva. Ma non solo. Ci sono considerazioni di carattere economico molto lucide, con numeri freddi (nelle storiche stanze dell’Istituto di Via Balbo sono quelli che dicono la verità…) e davvero poco rassicuranti. Si deve partire da un calcolo, che è alla base di tutto: il Pil – semplificando un’equazione che dentro l’Istat è pane quotidiano – è misurato mettendo in relazione la produttività, l’occupazione, la partecipazione al mercato del lavoro, la struttura demografica e la popolazione.
Blangiardo mette giù una simulazione: se si ipotizza che tra il 2020 e il 2040 la popolazione scenda di circa quattro milioni, proiezione non campata in aria stante le cifre che abbiamo ogni anno, il Pil scenderebbe del 6,9%. Se poi si immagina che scenda anche la popolazione in età attiva – a condizioni generali invariate nelle altre componenti, tra cui la produttività – allora il calo del Pil arriva addirittura al -18,6%. «Possiamo dire che questo genera un paradosso: l’aumento della vita media porta sempre più futuro per ognuno di noi singolarmente, ma sempre meno per tutti noi insieme».
Insomma, i dati dicono che la tendenza genera un “balzello” demografico destinato a durare se non si inverte la tendenza. «Un sistema-paese deve tenere conto che la demografia si muove piano, e questo permette di conoscere i fenomeni per tempo. Questo processo non lo scopriamo ora, ed è per questo che è necessario agire». La questione fu affrontata tra l’altro dagli Stati Generali sulla Natalità lo scorso maggio, dove parlarono il Papa e il premier Mario Draghi, e dove Blangiardo tenne la relazione di apertura dei lavori.
Manca un ambiente favorevole per chi ha figli
«Bisogna rivitalizzare la produzione di capitale umano. Per la natalità le cause del calo sono note: non ci sono strutture adeguate, manca un ambiente favorevole per chi fa figli. Anche questo è noto, e lo era anche in molti paesi europei, come Germania ma anche nazioni dell’ex est, che hanno attuato politiche che hanno invertito la tendenza. Gli interventi non devono avere natura assistenziale, ma demografica. E in questo senso l’assegno unico universale va nella direzione giusta, e non va ridimensionato».
L’altro punto importante sono le strutture: «Una strada è anche il maggiore coinvolgimento del mondo imprenditoriale. Non è solo lo Stato a doversi muovere, penso che si debba ragionare in chiave di Welfare di comunità». L’altro tassello è l’immigrazione, «che deve essere regolata e accogliente, e funzionale anche al sistema-paese. Ci sono dei modelli che hanno avuto successo».
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Alla base di tutto quindi – per Blangiardo – questa fase auspicabile di progressiva uscita dall’emergenza della pandemia da Covid-19 dovrebbe essere fondativa per pensare la ricostruzione del futuro demografico dell’Italia. Ragionando in termini di “conto economico”, come si trattasse di una grande impresa, per tornare in utile si deve quindi operare su immigrazione e frequenza annua delle nascite, da qui non si esce. Insomma, conclude il presidente dell’Istat, «si tratta di agire sulle due componenti che sono direttamente associabili al concetto di “Pil demografico”, un’invenzione un po’ provocatoria scaturita dall’idea di poter attribuire ad ogni evento demografico capace di generare anni-vita di futuro (la somma globale dell’aspettativa di vita dei residenti, ndr) il significato di produttore di un bene il cui valore, per l’appunto, si esprime e si misura nei termini degli anni creati, il Pil demografico».