19 Settembre 2024

Fonte: La stampa

di Roberto Toscano

Il mondo si trova oggi di fronte al caos medio-orientale – un caos multi-dimensionale che vede contemporaneamente un processo di disfacimento degli Stati della regione, le atrocità dello Stato islamico, un groviglio di finte alleanze e finte inimicizie, la produzione di flussi di rifugiati nonché il contagio trans-nazionale, da Parigi alla California, del terrorismo jihadista.

Ambiziosi personaggi come Putin e Erdogan ne ricavano un’occasione non solo di perseguire i propri obiettivi strategici, ma anche di consolidare all’interno la propria popolarità sventolando la bandiera del nazionalismo e accreditarsi sulla scena internazionale come leader imprescindibili. Sperano nello stesso tempo di far dimenticare di essere entrambi – in questo, avversari estremamente simili – imbarcati in un disegno politico di democrazia formale e autoritarismo reale.

Ma anche chi non aspira al protagonismo e chi non è certo sospettabile di istinti militaristi arriva oggi a ritenere che bisogna fare qualcosa, che non ci si può chiamare fuori da questa sfida ormai veramente globale.

Non si tratta solo della Francia, il cui impegno militare si spiega facilmente come reazione agli attentati di Parigi, ma della Germania, coinvolta soprattutto come destinazione privilegiata dei profughi siriani. Il Parlamento tedesco, quello di un Paese profondamente segnato da una storia che lo ha vaccinato contro le tendenze militariste, approva a grande maggioranza un impegno militare contro lo Stato islamico.

Anche nel Regno Unito il Parlamento autorizza un’azione militare, con il sostegno di una parte dei parlamentari del Labour, un partito tradizionalmente non interventista. Vale la pena di leggere il discorso di Hilary Benn, ministro-ombra della difesa laburista, per capire che la natura e la gravità della sfida hanno superato molte resistenze, modificato molte posizioni di principio. Si potrebbe pensare che il parallelo con la sfida del nazifascismo tracciato nel discorso di Benn sia una forzatura. Lo è solo per le dimensioni quantitative della sfida (al Baghadi non è Hitler, e lo Stato islamico non è la Germania nazista) ma non dalla sua natura politica.

Come definire in altri modi un totalitarismo ideologico che predica e pratica una politica genocida nei confronti delle minoranze religiose (sciiti, cristiani, yazidi), che applica una violenza senza limiti contro donne letteralmente vendute come schiave e omossessuali, distrugge il patrimonio archeologico e soprattutto ambisce a smantellare gli Stati esistenti per realizzare l’utopia reazionaria di un Califfato?

Non vi è dubbio che il rischio di una semplificazione militarista del problema medio-orientale esista, e che possa rinascere sotto altre forme il disgraziato e fallito disegno bushiano della «Guerra globale contro il terrorismo». E’ corretto dire che la forza militare non basta. Non esiste infatti (vedi le catastrofi irachena e libica) una prospettiva seria di successo senza un disegno politico proiettato verso il futuro, senza la capacità di affrontare il groviglio di ingiustizie, frustrazioni e oppressioni che stanno alla radice del radicalismo islamico. Ma «non basta» non vuole dire «non serve»: senza il contrasto militare da parte dei peshmerga curdi e di un esercito iracheno «vertebrato» dai Pasdaran iraniani lo Stato islamico si sarebbe già installato a Baghdad.

La soluzione di questo groviglio di sfide non arriverà dai soli bombardamenti, ma bombardare i convogli che portano in Turchia il petrolio dello Stato islamico, fonte essenziale di finanziamento, è essenziale, ed è anche essenziale aiutare militarmente i curdi.

Servirà però, nello stesso tempo, una diplomazia molto più robusta per fermare i finanziamenti che provengono al jihadismo da Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo. Servirà portare avanti il processo di Vienna mirato a mettere fine al conflitto siriano, senza il quale Al Qaeda non sarebbe mai diventato Isis e non si sarebbe mai impiantato su base territoriale.

Discutere su come esercitare la forza militare per invertire l’espansione territoriale dello Stato islamico, disegnare una strategia diplomatica sia su base multilaterale sia bilaterale, impegnarci per alleviare sul piano umanitario le sofferenze di popolazioni da troppo tempo lacerate dalla guerra e dal terrorismo. Si chiama politica estera, e non si tratta certo di un «optional».

E allora come mai il Parlamento italiano, a differenza da quello tedesco o britannico o francese, non sembra sensibile a questa esigenza?

Sul fronte ci siamo anche noi – con i nostri ricognitori, i nostri addestratori – ma preferiamo farlo «off the record». Come se fosse possibile defilarci da una serie di dilemmi rispetto ai quali non si possono evitare scelte difficili ma non eludibili. Scelte politiche, non di tattica e strategia militari.

Quello che più colpisce è che questa evasività, sempre più ingiustificabile, non sia solo del governo, ma di tutti i partiti. Dovremmo, al contrario, essere capaci di decidere, sulla base di un’aperta discussione politica nel Paese e nel Parlamento, quale sia la giusta miscela di strumento militare, diplomazia, azione umanitaria – e soprattutto quale sia il contributo che siamo disposti a dare. Si chiama democrazia.

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