Fonte: La Repubblica
di Kamaka Harris
Salve America.
È davvero un onore parlare con voi.
Il fatto che io sia qui stasera è una testimonianza della dedizione di intere generazioni prima di me. Donne e uomini che hanno creduto fortemente nella promessa di uguaglianza, libertà e giustizia per tutti.
Questa settimana ricorre il centesimo anniversario dell’approvazione del 19° emendamento della nostra Costituzione. E celebriamo le donne che hanno lottato per questo diritto.
Eppure a molte delle donne nere che hanno contribuito ad assicurare quella vittoria fu ancora proibito di votare molto tempo dopo la sua ratifica.
Ma loro non si sono perse d’animo.
Senza destare clamore né ottenere riconoscimenti, si organizzarono, si mobilitarono, marciarono e lottarono, non solo per votare, ma per conquistare un posto al tavolo delle decisioni. Sono loro ad averci dato, a noi che siamo venute dopo, le opportunità di cui adesso godiamo, aprendo la strada alla leadership pionieristica di Barack Obama e di Hillary Clinton.
Queste donne ci hanno spinto a raccogliere la fiaccola e a combattere.
Donne come Mary Church Terrell e Mary McCleod Bethune. Fannie Lou Hamer e Diane Nash. Constance Baker Motley e Shirley Chisholm.
Non ci insegnano spesso le loro storie. Ma come americane, poggiamo tutte sulle loro spalle.
C’è un’altra donna, il cui nome non è noto, la cui storia non è conosciuta. Una donna, sulle cui sulle spalle mi sono appoggiata. E questa è mia madre: Shyamala Gopalan Harris.
È arrivata qui dall’India, a 19 anni, per inseguire il suo sogno di curare il cancro. All’Università della California, a Berkeley, incontrò mio padre, Donald Harris, venuto dalla Giamaica per studiare economia.
Si innamorarono nel più americano dei modi, mentre marciavano insieme lottando per la giustizia nel movimento per i diritti civili degli anni Sessanta.
Per le strade di Oakland e Berkeley, ho assistito, dall’alto di un passeggino, a scene poco piacevoli.
Quando avevo 5 anni, i miei genitori si sono separati e mia madre ci ha cresciuti per lo più da sola. Come molte altre madri, lavorava 24 ore su 24 per tirare avanti, preparandoci da mangiare prima che ci svegliassimo e pagando le bollette dopo che eravamo andati a letto. Ci aiutava a fare i compiti sul tavolo della cucina e ci portava in chiesa per le prove del coro.
Lo faceva sembrare facile, anche se so che non lo è mai stato.
Mia madre ha instillato in me e in mia sorella Maya i valori che avrebbero segnato il corso della nostra vita.
Ci ha cresciuto insegandoci a diventare delle donne nere forti e orgogliose e ad essere fiere e consapevoli delle nostre ascendenze indiane.
Ci ha insegnato a mettere la famiglia al primo posto: la famiglia in cui si nasce e quella che si sceglie.
La famiglia è mio marito Doug, che ho conosciuto in seguito a un appuntamento al buio combinato dalla mia migliore amica. La famiglia sono i nostri bellissimi figli, Cole ed Ella, che come avete appena sentito, mi chiamano Momala. La famiglia è mia sorella. La famiglia è il mio migliore amico, i miei nipoti e i miei figliocci. La famiglia è i miei zii, le mie zie, le mie canzoni. La famiglia è la signora Shelton – la mia seconda madre che viveva due porte più in là e mi ha aiutato a crescere. La famiglia è la mia amata Alpha Kappa Alpha… la nostra sorellanza universitaria Divine 9… e i miei fratelli e sorelle delle nostre storiche università afroamericane.
La famiglia sono gli amici a cui mi sono rivolta quando mia madre, la persona più importante della mia vita, è stata sconfitta dal cancro. E pure quando ci ha insegnato a mantenere la nostra famiglia al centro del nostro mondo, ci ha anche spinto a vedere un mondo al di là di noi stesse.
Ci ha insegnato a essere consapevoli e compassionevoli verso le lotte di tutte le persone. A credere che il servizio pubblico sia una nobile causa e che la lotta per la giustizia sia basata su un senso di responsabilità comune.
Questo mi ha portato a diventare avvocato, procuratore distrettuale, procuratore generale e senatore degli Stati Uniti.
E ad ogni passo del cammino, sono stata guidata dalle parole che ho pronunciato fin dalla prima volta che mi sono trovata in un’aula di tribunale: Kamala Harris, Per il popolo.
Ho combattuto per i bambini e per i sopravvissuti alle aggressioni sessuali. Ho combattuto contro le organizzazioni criminali transnazionali. Ho affrontato le banche più grandi, e ho contribuito ad abbattere una delle più grandi università a scopo di lucro (for profit colleges).
So riconoscere un predatore quando ne vedo uno.
Mia madre mi ha insegnato che il servizio per gli altri dà uno scopo e un significato alla vita. Come vorrei che fosse qui stasera! Ma so che mi guarda dall’alto. Continuo a pensare a quella donna indiana di 25 anni – alta appena un metro e mezzo – che mi ha partorito al Kaiser Hospital di Oakland, in California.
Quel giorno, probabilmente, non avrebbe mai immaginato che mi sarei trovata qui, in piedi davanti a voi, a pronunciare queste parole: “accetto la vostra nomina a vicepresidente degli Stati Uniti d’America”.
Il mio impegno nasce dai valori che lei mi ha trasmesso. Dal suo insegnamento a camminare guidati dalla fede, non semplicemente da ciò che vediamo. E dalla visione del mondo che generazioni di americani ci hanno tramandato: la stessa che condivido con Joe Biden. La visione di una nazione dove tutti sono i benvenuti a prescindere da come appaiono, da dove vengono e chi amano. Dove possiamo non essere d’accordo su tutto, ma siamo uniti dalla certezza che la vita di ogni essere umano conta, e merita dignità e rispetto. E dove ci occupiamo gli uni degli altri, affrontiamo insieme le sfide, celebriamo insieme i trionfi.
Un paese dove ci prendiamo cura gli uni degli altri, dove ci alziamo e cadiamo tutti insieme, e dove insieme affrontiamo le nostre sfide e celebriamo i nostri trionfi .
Ci sentiamo anni luce lontani da quel paese. E la colpa è di Donald Trump. Il suo fallimento ha distrutto vite umane. Un’economia sana. Un intero modo di vivere.
Se sei un genitore che si arrovella con la didattica a distanza di tuo figlio, o un insegnante che si sta scervellando dall’altra parte dello schermo, sai che quello che stiamo facendo in questo momento non sta funzionando.
Siamo una nazione in lutto: per la perdita di vite umane, di posti di lavoro, di opportunità, di normalità, e per la perdita della certezza.
Anche se questo virus ci tocca tutti, siamo onesti, non è un trasgressore delle pari opportunità. I neri, i latinoamericani e gli indigeni stanno soffrendo e morendo in modo sproporzionato: non è una coincidenza. È l’effetto del razzismo strutturale.
E’ l’effetto delle disuguaglianze nell’istruzione e nella tecnologia, nell’assistenza sanitaria e negli alloggi, nella sicurezza del lavoro e nei trasporti.
E’ l’effetto dell’ingiustizia nell’assistenza sanitaria riproduttiva e materna. Nell’uso eccessivo della forza da parte della polizia. E nel nostro sistema di giustizia penale più in generale.
Questo virus non ha occhi, eppure sa esattamente come ci vediamo e come ci trattiamo.
E sia chiaro: non c’è nessun vaccino per il razzismo, dobbiamo sforzarci noi di curarlo. Per le vittime come George Floyd. Per Breonna Taylor e i nostri figli. Per tutti noi.
Dobbiamo sforzarci di tener fede alla promessa di uguale giustizia secondo la legge. Perché nessuno di noi è libero… finché tutti noi non saremo liberi…
Siamo a una svolta.
Il caos continuo ci lascia allo sbando. L’incompetenza ci fa paura. L’insensibilità ci fa sentire soli.
È troppo.
Ma possiamo fare meglio e meritare molto di più.
Dobbiamo eleggere un presidente che porti qualcosa di diverso, di migliore, e faccia le cose importanti. Un presidente che ci unisca tutti, afroamericani, bianchi, latinos, asiatici, nativi americani, per conquistare il futuro che tutti vogliamo.
Dobbiamo eleggere Joe Biden.
Conoscevo Joe come vice presidente. L’ho conosciuto durante la campagna elettorale. Ma l’ho conosciuto per la prima volta come il padre di un mio amico.
Il figlio di Joe, Beau, ed io siamo stati procuratori generali dei nostri Stati, del Delaware e della California. Durante la grande recessione, abbiamo parlato al telefono quasi ogni giorno, lavorando insieme per far riavere ai proprietari di case miliardi di dollari dalle grandi banche che le avevano pignorate.
Con Beau, parlavamo della sua famiglia.
Di come, da padre single, Joe passasse 4 ore al giorno in treno da Wilmington a Washington. Beau e Hunter facevano colazione ogni mattina con loro padre. Andavano a dormire ogni sera con il suono della sua voce che leggeva le favole della buonanotte. E mentre pativano una perdita indicibile, questi due ragazzini sapevano sempre di essere profondamente, incondizionatamente amati.
Ciò che mi ha commosso di Joe è anche il lavoro che faceva, mentre andava e veniva. Questo è il leader che ha scritto la legge sulla violenza contro le donne e ha messo in atto il divieto dei fucili d’assalto. Che, in qualità di vicepresidente, ha attuato il Recovery Act, portando il paese fuori dalla grande recessione.
Che ha sostenuto l’”Affordable Care Act” (la legge per l’assistenza sanitaria a prezzi accessibili per la tutela dei malati n.d.t.) proteggendo milioni di americani con patologie preesistenti. Che ha passato decenni a promuovere i valori e gli interessi americani in tutto il mondo, difendendo i nostri alleati e resistendo ai nostri avversari.
In questo momento abbiamo un presidente che trasforma le nostre tragedie in armi politiche.
Joe sarà un presidente che trasforma le nostre sfide in uno scopo.
Ci riunirà per costruire un’economia che non lasci nessuno indietro. Dove un lavoro ben pagato è la base, non il tetto.
Joe ci riunirà per porre fine a questa pandemia e assicurarsi che siamo preparati ad affrontare la prossima.
Ci riunirà per prendere di petto e superare l’ingiustizia razziale, completando il lavoro di generazioni.
Io credo, come lui, che possiamo costruire una comunità solidale, forte e dignitosa, giusta e benevola. Una comunità in cui tutti possiamo rispecchiarci.
Questo è il sogno per cui i nostri genitori e i nostri nonni hanno lottato. Un sogno che ha reso possibile la mia vita. Il sogno che fa della promessa americana – con tutte le sue complessità e imperfezioni – una promessa per cui vale la pena di lottare.
Non illudetevi, la strada da percorrere non sarà facile. Inciamperemo. Potremmo non farcela. Ma vi prometto che agiremo con coraggio e affronteremo le nostre sfide con onestà. Diremo la verità. E agiremo con la stessa fiducia che vi chiediamo di riporre in noi.
Crediamo che il nostro paese, che tutti noi, saremo uniti per un futuro migliore. Già lo siamo.
Lo vediamo nei medici, nelle infermiere, negli operatori sanitari a domicilio e negli operatori in prima linea che rischiano la vita per salvare persone che non hanno mai incontrato prima.
Lo vediamo negli insegnanti e nei camionisti, negli operai e nei contadini, nei postini e negli scrutatori, che mettono in gioco la loro stessa sicurezza per aiutarci a superare questa pandemia.
E lo vediamo in tanti di voi che lavorano, non solo per farci superare le crisi attuali, ma anche per andare verso il meglio.
Sta succedendo qualcosa, in tutto il paese.
Non si tratta di Joe o di me.
Si tratta di voi.
Si tratta di noi. Persone di tutte le età, di tutti i colori e di tutte le fedi che stanno scendendo in strada, cercando inoltre di persuadere i nostri familiari, radunare i nostri amici, organizzare i nostri vicini, e procurare voti.
Abbiamo dimostrato che, quando votiamo, ampliamo l’accesso all’assistenza sanitaria e alle urne e ci assicuriamo che più famiglie che lavorano possano guadagnarsi da vivere dignitosamente.
Sto pensando a un nuovo tipo di leadership. Voi ci state spingendo a realizzare gli ideali della nostra nazione, a vivere i valori che condividiamo: decenza ed equità, giustizia e amore.
Siete i patrioti che ci ricordano che amare il nostro paese significa lottare per i suoi ideali.
Con queste elezioni possiamo cambiare il corso della storia. Siamo tutti coinvolti in questa lotta.
Voi, io e Joe insieme.
E’ una grande responsabilità. Un grandissimo privilegio.
Combattiamo quindi con convinzione. Con speranza. Combattiamo con fiducia in noi stessi e con un impegno reciproco. Per l’America che sappiamo che è possibile. Per l’America che amiamo.
Fra qualche anno, questo momento sarà passato. E i nostri figli e i nostri nipoti ci guarderanno negli occhi e ci chiederanno: dov’eri quando la posta in gioco era così alta?
Ci chiederanno: come avete affrontato questa sfida ?
E noi glielo diremo. Diremo loro, non solo quello che abbiamo provato.
Diremo loro cosa abbiamo fatto.
Grazie. Dio vi benedica. E Dio benedica gli Stati Uniti d’America.
(Traduzione di Mario Baccianini)