Tra Belgrado e Pristina: solo una convivenza definitiva in questa regione può rendere meno pericoloso quel rapporto tra Serbia e Russia che costituisce una minaccia per la stabilità
Certo, c’è la guerra in Ucraina. Ma il futuro dell’Europa dipende anche da quanto accade in uno spicchio di terra spesso dimenticato. Perché il Kosovo è importante? Perché solo una convivenza definitiva in questa regione può rendere meno pericoloso, in prospettiva, quel rapporto «preferenziale» tra la Serbia e la Russia che costituisce da sempre una minaccia per la stabilità di un’area non solo «vicina» ma anche ormai parte dei nostri confini ideali. Belgrado deve guardare a Bruxelles e non a Mosca. I legami storici possono anche non durare all’infinito. Ma potrà farlo solo se si depotenzia un dossier che sta diventando ogni giorno più ricco di interrogativi aperti.
È chiaro che l’ultima ondata di violenze – che ha coinvolto drammaticamente anche i soldati della Kfor, molti dei quali sono italiani, riportando d’attualità l’impegno spesso trascurato di tutti coloro che, lontano dalla loro patria, lavorano per mantenere la pace – può fare concludere che questa ferita, come molte altre nel mondo, sia sostanzialmente inguaribile e che questa vicenda sia legata ad uno scontro dove le ragioni sono meno numerose dei torti.
Diciamo questo perché, a grandi linee, nessuno ha dato prova di moderazione. I kosovari hanno forzato una situazione squilibrata, provocata da elezioni locali boicottate (a Zvecan e negli altri comuni coinvolti la stragrande maggioranza della popolazione è serba) e non lanciando mai segnali di disponibilità per la ricerca di compromessi. La leadership belgradese soffia da tempo sul fuoco. Le proteste, iniziate in segno di reazione al tentativo dei sindaci kosovari neo-eletti di entrare negli edifici comunali, sono diventate sempre più violente.
Non è un caso che l’Europa sia molto preoccupata. Negli uffici dell’Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza, lo spagnolo Josep Borrell (che appartiene, ed è un paradosso della politica, ad un Paese che per ragioni di «interesse» nazionale non ha riconosciuto diplomaticamente il governo di Pristina) si ammette che le recenti elezioni suppletive nel nord del Kosovo non offrono «una soluzione politica a lungo termine per i comuni coinvolti» e si fa sapere che questa soluzione «può essere trovata solo attraverso un vero dialogo tra tutte le principali parti interessate, tra cui il Kosovo, la Serbia e la comunità serba del Kosovo, con la mediazione dell’Ue».
Come sta andando questa mediazione? A volte sembra retorico dirlo, ma non c’è dubbio che la soluzione sia comunque il dialogo. I volti sorridenti del presidente serbo Aleksandar Vucic e del premier kosovaro Albin Kurti, seduti ad uno stesso tavolo in febbraio a Bruxelles, avevano fatto sperare. Ma la realtà è meno bugiarda della fotografie. Si tratta adesso di spingere in maniera più forte nella direzione in cui andava il piano di normalizzazione dell’Unione europea. C’è bisogno di un semaforo verde per la marcia di avvicinamento di Belgrado all’Europa, vanno stabilite relazioni di buon vicinato sulla base di uguali diritti, è necessario indicare il rifiuto dell’uso della forza per la risoluzione delle controversie, dovrà arrivare il momento dare via libera all’ingresso di Pristina nelle organizzazioni internazionali.
Tutti questi non sono concetti astratti. Riportare la calma in Kosovo deve diventare una priorità: è intollerabile che una tensione come questa sia trascinata per anni. Farlo vuol dire affrontare anche il punto storico più importante, che riguarda la capacità dell’Europa di attirare, includere, allargare il suo raggio d’azione. Il sogno dell’allargamento può concretizzarsi, sostituendo le brutte immagini che ci arrivano dal Kosovo. Nei Balcani come in Ucraina.