22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Angelo Panebianco

È possibile che il vero significato politico degli Stati generali sia quello di far sapere che il governo Conte è pronto a dare qualcosa a tutte o quasi tutte le categorie esistenti


Non sappiamo se la televisione di Stato riuscirà a compensare o a neutralizzare, presso l’opinione pubblica, il giudizio prevalentemente negativo che sugli Stati generali hanno dato sia la stampa che i social. Ma forse non basta considerare questa iniziativa del governo Conte come una pura operazione mediatica. Forse c’è qualcosa di più. Forse bisogna distinguere la cornice dal quadro o la pelle del frutto dalla polpa. Cornice o pelle sono in questo caso rappresentati dalla sfilata delle autorità e personaggi illustri, esperti di chiara fama, eccetera, che si avvicenderanno ai microfoni di villa Pamphilj. Il quadro o la polpa potrebbero essere invece un’altra cosa, ossia un messaggio inviato alle categorie professionali del Paese: impiegati pubblici, artigiani, professionisti, insegnanti, magistrati, imprenditori dell’industria e dei servizi, eccetera. Insomma , è possibile che il vero significato politico degli Stati generali sia quello di «attivare» l’Italia corporativa, di far sapere che il governo è pronto a dare qualcosa a tutte o quasi tutte le categorie esistenti. Forse gli interventi che davvero conteranno non saranno quelli degli illustri personaggi di cui sopra ma quelli dei rappresentanti delle categorie/corporazioni. Da più parti si invoca un «piano» del governo per lo sviluppo. Si dice: basta con confusione e improvvisazioni, è ora che il governo dimostri di essere capace di sfruttare l’emergenza per prendere di petto gli storici mali del Paese.
Il governo — si dice — deve usare la finestra di opportunità che si è aperta per riformare (nientepopodimeno che) la pubblica amministrazione e la giustizia (persino), rimettere in moto l’Italia delle infrastrutture, rimuovere gli ostacoli che impediscono un rapido ed efficace (di tipo tedesco) impiego dei soldi pubblici, ristrutturare la sanità, investire in istruzione (in capitale umano). Insomma, si chiede al governo di fare quello che (apparentemente) è il suo mestiere: darsi delle priorità, decidere, colpire gli interessi, grandi e piccoli, che, da tanto tempo, funzionano come un «tappo» che blocca e comprime le forze vitali del Paese. Lodevoli propositi, rispettabilissime richieste. Ma esse si scontrano con il fatto che un governo capace di fare le suddette cose non c’è. Ciò vale per il governo Conte come per qualsiasi altro governo.
Non si considera che l’Italia è una Repubblica fondata non sul lavoro ma sul potere di veto. C’è sempre stata coerenza o sintonia fra l’esigenza di certe categorie professionali (per esempio, impiegati e funzionari pubblici) di non subire interventi del governo lesivi dei loro interessi e un assetto istituzionale fondato sulla dispersione anziché sulla concentrazione del potere di governo. Un tale assetto assicura la presenza di un gran numero di poteri di veto, assicura che qualunque iniziativa del governo potenzialmente lesiva degli interessi di categorie professionali dotate di una qualche rilevanza si scontrerà (dentro e fuori l’amministrazione, dentro e fuori il Parlamento, dentro e fuori la magistrature amministrativa e ordinaria ) con veti diffusi ed efficaci e, quasi certamente, ne uscirà sconfitta.
Nel duello fra «l’Italia della decisione» e «l’Italia dei veti» (dell’immobilismo assicurato dalla forza e dal numero dei poteri di veto), la seconda Italia è, da tanto tempo, molto più forte della prima. Non è un caso che tutte le volte che si è cercato di rafforzare l’Italia della decisione tramite riforme costituzionali, l’Italia dei veti sia riuscita a sconfiggere tali tentativi. Da ultimo è accaduto con il referendum costituzionale del 2016 (la riforma Renzi). L’Italia dei veti capì benissimo quale fosse il «succo» della riforma: dare più potere al governo ridimensionando almeno in parte quantità e vitalità dei poteri di veto. Capì, si mobilitò e vinse.
Detto per inciso: così come si dice che il capolavoro del diavolo consista nel far credere agli umani che esso non esista, il capolavoro dell’Italia dei veti è stato quello di convincere la maggioranza dei giovani italiani che l’immobilismo convenisse anche a loro. È vero che in un Paese demograficamente in declino i giovani contano sempre meno. Ma è pur vero che è proprio la generazione più giovane (la più danneggiata dai «tappi» che bloccano lo sviluppo) quella che avrebbe il massimo interesse a schierarsi dalla parte dell’Italia della decisione. E invece no. L’Italia dei veti è riuscita a spingere la generazione più giovane a schierarsi contro i propri stessi interessi, a scegliere masochisticamente l’immobilismo. Quelli fra i giovani che non ci stanno, per lo più, se ne vanno da un «Paese per vecchi».
Se si concorda con quanto sopra detto allora bisogna anche convenire sul fatto che, in queste condizioni, non si può chiedere a un governo di fare ciò esso non ha la capacità istituzionale e politica di fare: darsi un progetto coerente e avere la forza di applicarlo superando le inevitabili resistenze degli interessi danneggiati. Dove non c’è quasi un interesse che non possa attivare un potere di veto a propria difesa, i governi, per lo più, non si distinguono per le loro maggiori o minori capacità riformatrici. Si distinguono soprattutto per il fatto di avere rapporti privilegiati con differenti categorie professionali e con le loro strutture di rappresentanza.
Qui non vige il principio «Non disturbate il manovratore». Qui vige il principio «Il manovratore non si permetta di disturbare i passeggeri qualunque cosa essi facciano». Se si adotta questa prospettiva si arriva a comprendere che forse quella degli Stati generali è un’idea brillante. Il governo userà l’attenzione mediatica sull’evento per annunciare qualche decisione (come, ad esempio, la sospensione provvisoria della disciplina degli appalti) che avrebbe potuto prendere benissimo anche senza gli Stati generali. Con lo scopo di offrire al pubblico l’immagine di un Esecutivo «decisionista». Soprattutto, gli Stati generali rassicureranno le diverse categorie sul fatto che tutti, anche se ovviamente in modo assai ineguale, parteciperanno alla Grande Bouffe (Europa permettendo), potranno contare su una porzione, piccola o grande, delle risorse di cui il governo dispone.

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