ESTERI
Fonte: La Stampa
Siamo contro la pena di morte, ovunque. Per l’Europa l’abolizione della pena di morte non è soltanto un requisito per l’adesione all’Unione, ma addirittura un tratto identitario, una componente essenziale dei propri principi. E l’Italia, con una coerenza che ci fa onore, esercita da anni, soprattutto in ambito Nazioni Unite, una forte leadership nella battaglia per la moratoria delle esecuzioni in un’ottica esplicitamente abolizionista.
Si tratta di una lotta di civiltà paragonabile a quella condotta in passato contro la schiavitù, e proprio per questo siamo fiduciosi che la tendenza verso l’abolizione sia inarrestabile. In attesa del giorno in cui la pena di morte possa passare alla storia risulta tuttavia moralmente ineludibile non solo opporsi alla pena capitale per ragioni di principio, ma denunciare anche, con coerenza e coraggio politico, le offese ai diritti umani che derivano sia dalle modalità delle esecuzioni sia dai reati per cui la pena di morte viene decretata. Il caso più clamoroso è quello dell’Arabia Saudita, dove le esecuzioni vengono eseguite nella capitale mediante decapitazione sulla pubblica piazza (sinistramente nota come «chop chop square») in un osceno spettacolo popolare senza umanità, senza dignità, senza rispetto.
Quello che è ancora più osceno è l’elenco dei crimini punibili nel Regno saudita con la pena di morte. Come altri Paesi, l’Arabia Saudita prevede la condanna a morte dei colpevoli di omicidio o per traffico di droga, ma in questo caso l’elenco completo dei reati capitali è a dir poco raccapricciante: si va dall’adulterio all’omosessualità; dall’apostasia alla blasfemia; dall’idolatria alla stregoneria.
Negli ultimi tempi, alcuni casi hanno colpito particolarmente l’opinione pubblica mondiale: quello di un giovane saudita, Ali al-Nimer, condannato ad essere decapitato e successivamente messo in croce, e lì lasciato marcire, per avere partecipato nel 2012, quando aveva 17 anni, a manifestazioni di protesta per l’arresto del padre, un clerico sciita anche lui condannato a morte; la condanna alla lapidazione di una donna per adulterio, commesso con un uomo che invece è stato condannato soltanto a cento frustate; la condanna a morte per apostasia nei confronti di un poeta palestinese, Ashraf Fayadh, per avere, nei suoi versi, «insultato Allah e il Profeta» e avere «diffuso l’ateismo».
Ma ad essere clamorosi non sono solamente questi veri e propri eccessi di barbarie retrograda, ma anche i nostri silenzi. Nostri dell’Europa, nostri dell’Italia, pur di solito così attiva nell’opporsi per principio alla pena di morte.
Certo, l’Arabia Saudita è un Paese importante, un partner economico di grande rilievo, soprattutto in materia energetica. Ma il nostro silenzio minaccia non solo di essere in contrasto con il nostro impegno per l’abolizione della pena di morte, ma di farci perdere credibilità. I grandi Paesi, come aspiriamo ad essere, non hanno solo grandi interessi, ma anche grandi valori, e quanto meno fra interessi e valori dovrebbe esserci una tensione. Rinunciare ai secondi, ce lo dicono il realismo e la storia, non garantisce di certo i primi.
E poi, come è possibile opporsi alla decapitazioni di «infedeli» da parte dello Stato Islamico e passare sotto silenzio le esecuzioni di «apostati» da parte dell’Arabia Saudita? Entrambi citano fra l’altro, come fonte, la stessa interpretazione radicale, wahabita, della Sharia.
Infine il nostro silenzio significa che diamo per scontato che il Paese debba rimanere fermo negli aspetti più retrogradi di antiche tradizioni. In questo modo non rendiamo di certo giustizia a una popolazione, soprattutto giovane, in cui comincia ad affiorare l’aspirazione a una modernità che non si limiti alla sfera dei consumi e della tecnologia ma comprenda un’evoluzione della società basata sul rispetto delle tradizioni ma non dalla loro feroce ed autoritaria imposizione da parte di regimi prima o poi destinati – dovremmo ormai saperlo – ad essere sovvertiti, proprio per il loro rifiuto di cambiare, da violenti sommovimenti.