Fonte: Corriere della Sera
di Beppe Servegnini
Obama è preoccupato dagli effetti di una possibile uscita dell’Inghilterra dalla Ue
Quando si è Regine, a spegnere le candeline arrivano i Presidenti. Un po’ per rispetto, un po’ per affetto, un po’ per interesse. Elisabetta II ha compiuto ieri novant’anni, il suo Regno s’avvicina a una decisione storica sull’Europa e
Barack Obama sbarca a Londra: nulla avviene per caso.
L’ospite americano, oggi, sarà nel castello di Windsor per il lunch; cenerà a Kensington Palace con il principe Guglielmo, la duchessa Caterina e il principe Enrico. Ai reali e ai leader politici che incontrerà — state certi — il Presidente dirà che gli Stati Uniti sono contrari a Brexit: la Gran Bretagna deve restare a casa sua, e la sua casa è l’Europa.
È meno probabile che Obama intervenga pubblicamente sul tema, per evitare di sembrare invadente. Ma potrebbe farlo. Sarebbe bello se un presidente degli Stati Uniti, dopo aver detto «Ich bin ein Berliner!», dicesse: «I’m a European!». Barack Obama non è JF Kennedy, e Londra 2016 non è Berlino 1963. Ma la sfida, oggi come allora, è storica.
Il presidente americano, con garbo, farà capire agli amici britannici che la «special relationship» — frutto di storia, di lingua e di interessi — non è più quella evocata da Winston Churchill. Il Regno Unito, nel 1946, era al centro di un impero. Oggi, nel 2016, è parte di un’organizzazione.
Londra conta ancora, e conta molto: fra le quattro capitali d’Europa, resta la più importante. È la prua del continente: una parte importante della nave, ma non è la nave.
Per attraversare le acque agitate del mondo – migranti, Siria, Isis, Ucraina, Russia, Cina, turbolenze economiche e finanziarie – oggi occorrono corazzate costruite con principi condivisi, propositi comuni, alleati fidati. Fuori dall’Europa il Regno Unito diventerebbe, presto, un Regno Disunito. Se ne andrebbe la Scozia, che si trova bene nella UE e considera Bruxelles un contrappeso a Londra; lascerebbe presto anche l’Irlanda del Nord. Sarebbe così interessante, per gli Stati Uniti d’America, quella nuova Norvegia insulare di lingua inglese, ricca di ricordi ma povera di utilità?
E la Regina? Nessuno sa esattamente cosa pensi Elisabetta: se speri che il Regno esca dall’Unione Europea oppure ci rimanga. Com’è prevedibile, in molti la tirano per la giacca (l’ermellino?). Giorni fa il tabloid Sun, senza portare prove, ha sparato questo titolo: «Queen backs Brexit», la Regina appoggia l’uscita dall’Unione Europea. In molti si sono affrettati a dire che non è così. La verità è più semplice: nessuno lo sa.
Sessantatré anni di regno le hanno insegnato il mestiere. Elisabetta possiede tre doti che, talvolta, i famigliari dimenticano: cautela, discrezione e disciplina. Il re del Discorso del re – ha ricordato Jonathan Freedland sul Guardian – era suo padre, Giorgio VI. Una ragazza che ha visto dal basso i bombardieri nazisti sa cosa deve fare. Per esempio, non impicciarsi di politica. Perché indisporre, ogni volta, metà dei sudditi? La neutralità pubblica è una scelta strategica, una garanzia per durare nel tempo. Chissà quante volte Elisabetta ha provato a spiegarlo al primogenito Carlo; chissà se ha già iniziato a dirlo al nipote Guglielmo.
Ha scritto sul New York TimesStrobe Talbott, vice segretario di Stato americano dal 1994 al 2001, ora presidente della Brookings Institution: «Per Vladimir Putin, il collasso del progetto europeo sarebbe la ricompensa per quello che lui considera il trionfalismo dell’Occidente dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991». Un’altra sostenitrice di Brexit è la francese Marine Le Pen. Ritrovandosi alleati così, chissà che Boris Johnson, sindaco di Londra e splendido opportunista, non rinsavisca: Brexit è una pessima idea. Le democrazie d’Europa e d’America, oggi più che mai, devono restare insieme.
Alla presenza di una Regina, certo, non è facile: ma Barack Obama, invece del solito «Happy Birthday», potrebbe intonare «The Long and Winding Road» dei Beatles. «La strada lunga e tortuosa/ che conduce alla tua porta / non sparirà mai». Ma quella porta bisogna tenerla aperta, cari inglesi. Se il 23 giugno la chiuderete in faccia all’Europa e all’America, poi non lamentatevi delle conseguenze.