Sulla filiazione delle coppie Lgbtq+ si è acceso un aspro confronto. Ma il disaccordo sui principi può essere salutare, purché rispetti la cosiddetta etica della responsabilità. Comunque con la mobilità delle famiglie l’unica strada efficace è la regolazione su scala internazionale
Sui temi spinosi della genitorialità e filiazione delle coppie Lgbtq+, si è acceso un confronto che sta travalicando i confini dell’etichetta democratica. In una società liberale il disaccordo sui principi è inevitabile e persino salutare, purché rispetti la cosiddetta etica della responsabilità. Nella sfera politica, le convinzioni morali non possono essere assolute, indifferenti alle loro possibili conseguenze pratiche, comprese quelle involontarie o non previste. E la disponibilità all’ascolto e alla mediazione dovrebbe ispirare in particolare l’azione di chi ha responsabilità di governo.
Sullo sfondo della contrapposizione in corso s’intravede, per fortuna, la convergenza su una priorità: la tutela del superiore interesse dei bambini. È una condivisione importante, soprattutto perché — se presa sul serio — esclude una perniciosa linea d’azione: usare il diniego del riconoscimento legale come arma impropria contro i genitori omoaffettivi. Se si segue questa strada, infatti, bambini già nati e in carne e ossa verrebbero trattati come strumenti per scoraggiare (o punire) il ricorso alla maternità surrogata da parte degli adulti. A partire da Kant, l’etica liberale prescrive di trattare i minori come fini (come soggetti portatori di autonoma dignità) e mai come mezzi.
D’altra parte, è vero che la maternità surrogata solleva grossi problemi non solo per le donne gestanti, ma per gli stessi bambini. Si tratta di una pratica che, anche dove permessa, non può in nessun modo avvenire in base alla logica della compravendita. Oltre al rischio di sfruttamento e di degradante asimmetria fra le parti nella relazione di scambio, vi è anche la minaccia all’identità genetica e biologica dei bambini. Nel crescente mercato globale della surroga, non c’è tutela di dati e informazioni preziose sul piano sanitario, psicologico, giuridico e culturale. Come mostra la ricerca sulle adozioni, la possibilità di ricostruire le proprie origini bio-genetiche gioca un ruolo importante nel processo di crescita personale.
I diritti da proteggere contro il mercato delle gestioni surrogate vanno a loro volta bilanciati con un altro importante diritto: quello di ogni bambino a vedersi riconosciuti i genitori, anche quelli intenzionali. La condanna morale e il divieto giuridico della maternità surrogata non possono interrompere la continuità del legame parentale, anche nei suoi risvolti legali. Il riconoscimento è previsto nella grande maggioranza dei Paesi Ue. L’adozione step-child (unica soluzione consentita per ora dall’ordinamento italiano) è una procedura lunga, complessa, costosa, programmaticamente intrusiva.
C’è poi almeno un altro aspetto da considerare. Le giurisdizioni nazionali hanno perso o delegato il controllo su frontiere e movimenti delle persone. I genitori intenzionali (in maggioranza, per altro, eterosessuali) possono ricorrere alla maternità surrogata all’estero, vanificando così la proibizione dello Stato in cui risiedono. L’unica strada efficace è la regolazione su scala internazionale. La crescente mobilità delle famiglie fra Paesi Ue solleva poi il problema dei riconoscimenti transfrontalieri. Il loro rifiuto viola il diritto alla non discriminazione, tutelato dall’ordinamento europeo, e può comportare il mancato godimento dei molti diritti che derivano dallo status anagrafico (pensiamo al mantenimento, alla successione, alla rappresentanza legale da parte del secondo genitore e così via). Conseguenze serie, che non vanno minimizzate.
I ragionamenti potrebbero proseguire a lungo. Il punto da fermare riguarda però il metodo. Il «rimbalzo» fra le diverse posizioni di principio, esaminate sotto il profilo delle conseguenze e nel contesto di un dibattito ragionevole, porta a scartare progressivamente le soluzioni che ledono uno o più aspetti del variegato interesse superiore dei minori. E rende possibile il raggiungimento di un equilibrio «riflessivo» (come lo chiamano i filosofi liberali), ossia un consenso di base frutto della parziale intersezione di punti di vista inizialmente polarizzati.
Con la sua proposta di Regolamento sul riconoscimento della filiazione tra Stati membri, la Commissione europea ha fatto un primo passo nella giusta direzione. Chi ha letto con attenzione il testo di questo provvedimento e i documenti che l’accompagnano non può non riconoscerne lo spirito aperto e al tempo stesso rispettoso delle tradizioni nazionali. La netta opposizione a questa proposta espressa in Parlamento dai partiti di maggioranza riflette un arroccamento di principio che è fuori linea rispetto all’etica della responsabilità. La quale suggerirebbe invece di essere disponibili al confronto con le opposizioni, in Italia, e di cercare un punto di equilibrio a livello europeo.
Se è vero che la sfida della maternità surrogata richiede collaborazione fra Paesi, il governo italiano potrebbe ad esempio proporre a Bruxelles di uniformarsi ai criteri recentemente suggeriti dall’Unicef in merito ai diritti dei minori in caso di surroga: salvaguardia delle informazioni sulle origini, verifica degli accordi di pre-surroga, divieto di vendita o traffico di minori, sorveglianza delle agenzie di mediazione e altri ancora. Fare una proposta in questa direzione sarebbe l’inoppugnabile conferma di un impegno etico per ora soltanto dichiarato. Quello di usare come unica bussola, su temi così delicati, il ben-essere dei bambini, a prescindere da come e dove sono nati.