19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Michele Salvati

Pochi politici sono consapevoli della gravità della situazione e delle soluzioni da adottare. Ma proporle agli elettori può anche fare perdere voti


Il nostro Paese fa fatica a crescere e a soddisfare le aspirazioni di benessere dei suoi cittadini per l’influenza di due cause, una internazionale e una interna. La causa internazionale, che si è manifestata a partire dagli anni 80 del secolo scorso, è stata il passaggio a un regime di politica economica molto diverso da quello in vigore nel dopoguerra: si è trattato di una vera grande svolta del capitalismo, in direzione di un regime neoliberista e globalizzato. In un contesto di libera circolazione dei capitali e di cambi flessibili crescono maggiormente i Paesi più competitivi, con salari più bassi, con buone capacità tecnologico-organizzative, o per il concorso di entrambi i motivi. I Paesi più ricchi e industrialmente maturi, quelli favoriti dal precedente regime, devono adattarsi a tassi di crescita minori. Nei più competitivi tra di essi, tuttavia, la crescita è ancora sufficiente a sostenere adeguate istituzioni di Welfare e livelli decenti di occupazione. Anche in questi si registrano però forti perdite relative di reddito e di occasioni di lavoro stabile nei ceti professionalmente e culturalmente più deboli e nelle aree territoriali meno favorite. E si registrano spesso forti squilibri nella distribuzione del reddito a favore dei ceti avvantaggiati dai caratteri tecnologici e finanziari di questa fase della globalizzazione: di qui la protesta e la crescita di movimenti populistici. Nei Paesi industrialmente avanzati e ancora ricchi (ma per quanto?) e però meno competitivi — l’Italia è un caso tipico — questi fenomeni si avvertono con maggiore intensità.
Passando alle cause interne, si può notare una grande varietà di situazioni. Limitandoci all’Italia, l’origine delle sue debolezze può essere fatta risalire al trentennio 1963-92, il periodo delle riforme mancate, quando ancora gli effetti più minacciosi del neoliberismo e della globalizzazione non si erano fatti sentire appieno. Riforme mancate sia sul piano della politica macroeconomica (e dunque inflazione, subito seguita dall’accumulazione di un insostenibile debito pubblico). E riforme mancate sul piano microeconomico e strutturale (perdita delle grandi imprese, amministrazione pubblica inefficiente, scuola e università in crisi, assetto costituzionale e regionale inadeguato, Mezzogiorno sussidiato…). Insomma, siamo arrivati all’appuntamento col nuovo e più severo regime di politica economica internazionale in condizione di grande fragilità, mascherata sino a fine secolo da una crescita stimolata da disavanzi pubblici e poi dalla grande svalutazione del periodo 1993-95: le riforme degli ultimi anni del secolo (Amato, Dini, Ciampi, Prodi) non sono bastate a colmare il ritardo e a invertire la rotta del declino. Coll’ingresso nella moneta unica, ma non a causa di questa, il nostro distacco dai Paesi europei con cui solitamente ci confrontiamo non ha fatto che aumentare: rispetto a loro abbiamo perso circa 20 punti di reddito procapite e ora anche la Spagna ci ha superato.
E l’Unione Europea? Non poteva essere una grande occasione per influire sulle decisioni degli Stati Uniti e impegnarsi per una globalizzazione più regolata, a difesa di un modello sociale europeo? Poteva, ma sinora non lo è stata per ragioni ben note e sulle quali non posso ora soffermarmi. Mi limito allora a due asserzioni apodittiche. La prima è che, con tutti i limiti dell’Unione, stare in Europa è meglio che uscirne. Al di là dei pesantissimi costi di transizione che un’uscita imporrebbe, passeremmo dalla padella alle brace e la maggiore autonomia che conquisteremmo sarebbe vanificata dal regime di politica economica internazionale in cui ricadremmo. La seconda asserzione è che il peso dell’adattamento alla situazione internazionale in cui ci troviamo sta sulle nostre spalle: per quanto con Macron e una (possibile) Grosse Koalition tra democristiani e socialdemocratici tedeschi si siano aperti nuovi spazi per una riforma dell’Unione, è illusorio sperare in una solidarietà economica da parte dell’Europa molto più forte di quella attuale. L’ostacolo della «pericolosa ossessione tedesca», come l’ha definita Jean Pisani-Ferry, nei confronti di una Transfer Union, di un maggiore sostegno ai Paesi più deboli, è insuperabile: non un euro dei contribuenti tedeschi deve andare a finanziare le inefficienze e i ritardi di altri Paesi!
Perché ho raccontato una storia che ogni cittadino informato dovrebbe conoscere? L’ho raccontata perché mi ha colpito un articolo di Alessandro Campi sul Messaggero del 10 scorso: Il vuoto di idee che avvelena la campagna elettorale. «L’impressione è che i partiti, a pochi mesi dall’appuntamento cruciale con le urne, stiano vivendo un serio vuoto di idee e di capacità propositiva. Rispetto all’acutezza della crisi economico-sociale nella quale l’Italia è ancora immersa nessuno di essi sembra avere soluzioni razionali da proporre all’attenzione dei cittadini». Un vuoto di idee, competenze e capacità propositiva c’è senz’altro in alcuni dei partiti che si presentano in queste elezioni. Non c’è però in altri: in questi ci sono molti politici e tecnici consapevoli della gravità della situazione e delle «soluzioni razionali da proporre all’attenzione dei cittadini». Qui però opera un altro meccanismo: perché proporle se non servono a raccattare voti, anzi rischiano di farne perdere? Il ragionamento dei loro leader sembra essere questo: i cittadini informati, quelli che conoscono bene la storia che ho raccontato e ne traggono le dovute conseguenze in sede di voto, sono una piccola minoranza. E allora, più che sulla testa, è meglio far leva sulla pancia, sulle loro paure, sulle loro irritazioni. Poi le «soluzioni razionali» le adotteremo se vinceremo le elezioni e andremo al governo. Al governo? Il rischio che corriamo è che a far leva sulla pancia siano più bravi quelli che sono veramente inconsapevoli della gravità della situazione e che a vincere le elezioni saranno loro.

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