Fonte: Corriere della Sera
di Ferruccio de Bortoli
La tentazione di trasformare la missione della Cdp è venuta un po’ a tutti. Ma nel «contratto» di governo la spregiudicatezza programmatica è maggiore
Nulla di nuovo sotto il sole. La lottizzazione gialloverde non è nei fatti molto diversa da quella precedente. Tutto dipende sempre dalla qualità delle persone. Perché, ribaltando il mitologico slogan grillino, «uno non vale uno». Il punto è questo. Abbiamo avuto in passato lottizzati eccellenti che però, una volta nominati, hanno guardato all’interesse delle aziende loro affidate e alla propria coscienza più che al legame politico. Altri hanno fatto esattamente l’opposto. Il nuovo amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti (Cdp) Fabrizio Palermo è certamente in quota Cinque Stelle. È un tecnico apprezzato, avendo svolto finora il ruolo di Chief financial officer (Cfo), ovvero direttore finanziario della stessa Cdp, scelto da un suo predecessore, Giovanni Gorno Tempini, e confermato durante la gestione di Fabio Gallia. Non crediamo che la sua retribuzione sia legata alla realizzazione del programma di governo. Ci mancherebbe altro! Il «contratto» fra Cinque Stelle e Lega prevede per la Cassa un più ampio, seppur vago, ruolo di banca pubblica, quale non è essendo fuori dal perimetro statale. E Cdp non è nemmeno una banca. Speriamo, non solo per lui, che non abbia firmato cambiali in bianco con i suoi datori di lavoro politico. Insomma, che faccia bene il suo mestiere insieme al presidente Massimo Tononi (sottosegretario all’Economia nell’ultimo governo Prodi), nominato dalle fondazioni bancarie azioniste di minoranza della Cdp.
Il ministro dell’Economia, che detiene il pacchetto di maggioranza della Cassa, avrebbe voluto la nomina, di sicuro prestigio, di Dario Scannapieco, attuale vice presidente della Bei, la Banca europea degli investimenti. Tria ha dovuto cedere per poter scegliere (ci mancava solo che non lo potesse fare!) il proprio principale collaboratore. Alla direzione generale del ministero, salvo sorprese, andrà Alessandro Rivera. È auspicabile che il compromesso tra le forze di maggioranza — la Lega punta alle Ferrovie — consenta la conferma, come ragioniere generale dello Stato, di Daniele Franco, tecnico di valore e di provata indipendenza. A maggior ragione dopo gli sguaiati attacchi governativi al presidente dell’Inps, Tito Boeri.
C’è un passaggio fondamentale da completare per quanto riguarda la Cassa: la formazione del consiglio cui spetta per statuto ogni decisione sugli investimenti. Nelle prossime ore verrà depositata la lista. Se l’orientamento di Tria è quello anticipato ieri da Federico Fubini, l’azionista di maggioranza eserciterà fino in fondo le proprie prerogative. Cdp gestisce il risparmio postale degli italiani. Ha un attivo di 370 miliardi. Ha partecipazioni per 35 miliardi (Eni, Terna, Saipem, Tim, Italgas, Snam, ecc.). Qui se «uno vale uno» rischiamo di perderci tutti e di mettere a repentaglio i conti pubblici. Dalla qualità dei cinque prescelti — che si aggiungono ai tre delle fondazioni e al nuovo amministratore delegato — dipenderà il futuro del salvadanaio del Paese. Non è inopportuno ricordare che una prima rottura nella governance della Cassa avvenne con il governo Renzi che anticipò di un anno il rinnovo dei vertici. Al punto che la nomina del presidente, oggi uscente, Claudio Costamagna, venne sottratta alle fondazioni con l’intenzione, poi scontratasi con la realtà gestionale, di fare di Cdp il braccio operativo di una rinnovata politica industriale, con una maggiore presenza dello Stato. La corresponsione alla Cassa di un margine di interesse più elevato sulle somme depositate presso il conto di Tesoreria del ministero (150 miliardi) tacitò le fondazioni, garantendole sul lato dei dividendi. In un’intervista al Corrierel’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha definito quel margine «stratosferico». In sostanza è anche una mezza partita di giro visto che Cdp paga lo 0,6 per cento alle Poste per la raccolta, più le tasse e i dividendi.
Dunque, anche qui nulla di nuovo. La tentazione di trasformare la missione della Cdp, facendole fare anche ciò che non rientra nei suoi compiti statutari, è venuta un po’ a tutti. Ma nel «contratto» di governo la spregiudicatezza programmatica è assai maggiore, anche se non ci cita mai direttamente la Cassa. Va bene essere veicolo per maggiori investimenti. È giusto che faccia di più anche secondo le indicazioni del governo. Ma se dovesse intervenire, come viene ventilato, per esempio in Alitalia, sarebbe assai difficile sostenere ancora a lungo la sua estraneità al perimetro statale e sottrarsi all’accusa di fornire aiuti indebiti. Quando Eurostat votò per la sua esclusione dal bilancio pubblico (come avviene peraltro per la tedesca Kfw e la francese Caisse des Dépôts) lo fece con una maggioranza risicata (14 contro 8). E a ben guardare gli ultimi bilanci si nota che il margine di interesse garantito dal Tesoro — cioè pagato da tutti i contribuenti — è superiore all’utile netto, cioè al risultato degli investimenti fatti, molti decisamente negativi (il fondo Atlante, Saipem, Tim). Continuando così — a maggior ragione se si dovesse intervenire in diversi dossier aperti in chiave solo di salvataggio — sarà difficile negare l’esistenza di aiuti di Stato ad aziende in difficoltà. Un’eventuale e conseguente riclassificazione del ruolo di Cdp, all’interno del bilancio statale, farebbe aumentare di colpo il debito pubblico. A livelli insostenibili. Meglio non pensarci? No, meglio pensarci. Per tempo.