Per la Suprema corte i luoghi comuni giudiziari contrastano con l’articolo 101 della Carta. L’Autorità giudiziaria era già stata ammonita dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo
Stop agli stereotipi sulle donne negli atti giudiziari. Le motivazioni delle sentenze devono essere basate solo sui fatti e sulla legge. E non influenzate da convinzioni soggettive e moralistiche, frutto di modelli basati su preconcetti.
Il duro monito della Cassazione alle toghe, arriva in occasione di una sentenza con la quale i giudici territoriali avevano confermato la condanna di una donna per aver accusato il suo compagno di molestie nei confronti del figlio minore. Una calunnia, si leggeva nella sentenza, «”verosimilmente” riferibile al rifiuto dell’uomo di sposare la ricorrente, per regolarizzare una situazione sentimentale da cui era nata anche una prole».
La Suprema corte annulla la condanna per un reato non provato. Ma soprattutto censura i giudici per essersi lasciati influenzare da un cliché: lei che si vendica perché lui non la vuole sposare. «La motivazione della sentenza impugnata – scrivono i giudici di legittimità – risulta gravemente viziata da manifesta illogicità per l’uso di veri e propri stereotipi giudiziari».<
I luoghi comuni censurati dalle norme sovranazionali
Luoghi comuni, sottolinea la Suprema corte – considerati dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 27 marzo 2019 e dalla Convenzione di Istambul – che entrano in rotta di collisione anche con l’articolo 101 della Costituzione secondo il quale il giudice è soggetto solo alla legge. Per la Cassazione l’argomentazione usata nella motivazione «si risolve in un soggettivo convincimento del tutto disancorato da dati oggettivi ed arbitrariamente selezionato dalla Corte territoriale per motivare la denuncia dell’imputata». Un modo di procedere già censurato dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, con la sentenza J.L.contro Italia del 27 maggio 2021. In quell’occasione i giudici di Strasburgo avevano invitato l’Autorità giudiziaria italiana ad astenersi «dall’utilizzo di motivazioni che esprimano la persistenza di stereotipi sul ruolo delle donne» e le espongano «alla vittimizzazione secondaria usando parole colpevolizzanti e moralistiche che potrebbero scoraggiare la fiducia della vittima nella giustizia». Il potere discrezionale dei giudici ed il principio di indipendenza della magistratura sono, infatti, limitati dall’obbligo di tutelare immagine e riservatezza dei soggetti da qualsiasi interferenza ingiustificata. E per la Cassazione «tale si deve ritenere l’utilizzo di congetture, disancorate da fatti, riferibili a condizionamenti e pregiudizi personali in cui matura la decisione».