Fonte: La Stampa
di Francesco Olivo
Il presidente Puidgemont in Parlamento: abbiamo il diritto all’autodeterminazione. E chiede la mediazione della comunità internazionale. L’ala più dura: opportunità persa
L’indipendenza della Catalogna è durata meno di un minuto. È il tempo trascorso tra la dichiarazione di secessione di Puigdemont e la precisazione successiva: «Gli effetti saranno sospesi per alcune settimane». Smarrimento generale tra deputati e militanti, pronti con il Cava, lo spumante catalano, da stappare in onore della Repubblica. E invece no: Puigdemont, il presidente indipendentista fin da bambino, ha deciso di frenare una macchina, che da due anni si lanciava in una corsa spericolata e senza una meta razionale. Niente secessione, seppur tra l’ambiguità delle circonlocuzioni e le tante incognite dei prossimi giorni. A confondere maggiormente le acque la dichiarazione di 72 deputati che si sono impegnati a portare avanti l’indipendenza.
«Assumo il mandato del popolo perché la Catalogna si converta in uno Stato indipendente in forma di repubblica», aveva esordito Puigdemont, tra l’entusiasmo dei suoi. Un atteggiamento che poi si raffreddava, con la frase successiva: «Il governo e io stesso proponiamo che il Parlamento sospenda gli effetti della dichiarazione di indipendenza per avviare un processo di dialogo». È la via slovena (Lubiana aveva dichiarato l’addio alla Jugoslavia con un referendum nel ’90, ma l’aveva sospeso per sei mesi), in attesa di vedere se qualche mediazione possa prendere forma. Puigdemont, intanto, ha fatto appello all’Ue: «Chiedo che si dedichi a fondo alla questione e che si appelli ai valori fondamentali dell’unione».
In tanti gli avevano chiesto di frenare e lui ha ceduto. Troppe le minacce, le banche che spostavano la sede, seguite dalle grandi aziende, hanno generato un panico che ha coinvolto anche ampi settori della società catalana che avevano creduto, e ancora credono, che il futuro sia lontano da Madrid. Lo spettro della fuga dei capitali, le voci, più o meno verificate, delle code agli sportelli dei bancomat e i conti correnti spostati in filiali di altre regioni hanno avuto la meglio. L’ansia generalizzata, insomma, è arrivata anche al presidente: «Tutti dobbiamo assumerci le nostre responsabilità per abbassare la tensione, non dobbiamo contribuire né con gesti, né con le parole ad aumentarla».
Secondo il governo catalano, dopo aver così a lungo utilizzato la parola «dialogo», era giusto mostrare un gesto concreto. Noi ci siamo fermati, si ragiona al Palau della Generalitat, ora la palla passa a Madrid, «se anche davanti a questo vanno avanti con la repressione, siamo pronti a dichiarare l’indipendenza in pochi giorni».
È stata una giornata lunga per Puigdemont e il suo volto non lo mascherava. Riunioni, incontri, telefonate e ancora tanti appelli. Finito il Consiglio dei ministri (la Generalitat già opera di fatto come uno Stato) un esponente del partito di Convergencia si confida: «Non ci sarà una dichiarazione esplicita». L’ottimismo delle colombe, dopo che nella nottata precedente i duri già montavano i palchi per la festa, sembra giustificato. Nel primo pomeriggio, le associazioni della società civile indipendentista, ormai diventate potentissime, venivano contattate dal governo: l’urgenza è di preparare la piazza a un’eventuale frustrazione. «La Repubblica ci sarà, ma non segnatevi la data del 10 ottobre» è il messaggio fatto arrivare al popolo del referendum.
I guai per Puigdemont non sono fuori, ma dentro il parlamento. Il discorso storico del «president» è scritto, i concetti chiave sono fissati da almeno due giorni, ma i deputati della Cup, l’ultra sinistra indipendentista decisiva per la maggioranza, ne scoprono il contenuto solo pochi minuti prima delle 18, ora fissata per l’inizio della seduta. I «cuperos», poco inclini alla disciplina, sono una furia: «Così non entriamo nemmeno in aula». Scoppia il caos, «non si può governare con i comunisti», scherza un parlamentare del partito di governo. Serve un’ora di sospensione per convincerli a occupare i seggi. Poi, alle sette passate, la Cup rientra in aula, senza applaudire l’intervento di Puigdemont. Quando tocca alla leader del gruppo, Ana Gabriel, i toni sono delusi (ma non feroci): «Peccato, avremmo dovuto proclamare subito la Repubblica». Prima di lei era intervenuta Ines Arrimadas la leader di Ciudadanos, spiazzata anche lei dalla frenata del nemico, «lei rappresenta il peggio del nazionalismo europeo» dice a Puigdemont, ma sembra un discorso scritto a prescindere della novità. Più ironiche le parole di Miquel Iceta, segretario dei socialisti catalani: «Come fa a sospendere una dichiarazione che non ha fatto?». Risate anche tra i banchi della maggioranza. Ma la vera vincitrice di giornata è Ada Colau, la sindaca di Barcellona che, dopo aver partecipato al referendum, aveva chiesto a Puigdemont di «non dinamitare i ponti». Niente mine, in effetti, ma vediamo se qualcuno li percorre.