Fonte: La Repubblica
di Fernando Savater
Lettera dall’Europa / El Paìs
L’ideale di un’effettiva e piena cittadinanza europea è antico quasi quanto la stessa Ue, ma i suoi progressi non sono stati facili né rapidi. La sua prima formulazione – poco più di un abbozzo firmato da Leo Tindemans nel 1974 – fu accolta dai governi con scarso entusiasmo. Dieci anni dopo si formò in seno al Consiglio europeo un comitato denominato “Europa dei cittadini”, le cui proposte, che pure influirono positivamente sul progetto di Trattato dell’Ue redatto da Altiero Spinelli, furono recepite solo in minima parte nell’Atto Unico europeo. Si dovrà attendere altri quattro anni per vedere un progetto di cittadinanza europea articolato e motivato, presentato dalla delegazione spagnola al Consiglio europeo riunito a Roma, e inserito due anni dopo nel Trattato di Maastricht. L’ulteriore miglioramento e sviluppo di questo progetto non solo innovatore, ma con aspirazioni ragionevolmente rivoluzionarie, fu poi frenato dall’insuccesso del referendum sulla Costituzione europea, anche se nel Trattato di Lisbona si tentò, per quanto possibile, di salvarlo dal naufragio.
Non è difficile comprendere la reticenza dei governi nazionali, così come dei cittadini degli Stati membri, nei confronti di questa prospettiva post-nazionale. Già il filosofo George Santayana aveva scritto, in Dominations and Powers, che nelle grandi alleanze internazionali la parte più difficilmente assimilabile è la prospettiva di essere almeno in parte governati da stranieri. Oltre tutto, in questo caso si esige di andare anche più in là, accettando come concittadini i nativi di altri Paesi, e dimenticando che poco prima quegli stessi individui erano considerati a tutti gli effetti come “stranieri”. Deterritorializzare la cittadinanza separandola dal luogo d’origine, dalla comunità genealogica che ci tiene ancorati al passato, per farla dipendere invece da una stessa legge, con uguali diritti e doveri di fronte al futuro, vuol dire porsi in contrasto con quella che è la visione elementare in questo campo. La cittadinanza, in tal modo legata all’universale e non più a tradizioni locali, sarebbe allora aperta a tutti, indipendentemente dal luogo d’origine. Finora ciò che caratterizzava gli spagnoli, i francesi, i tedeschi, erano le “radici”, il “ceppo” di provenienza ( de pura cepa per gli spagnoli, de souche per i francesi): metafore agricole, basate sul seme che germoglia dove è stato piantato e non altrove. Ma come bene ha detto George Steiner, noi non abbiamo radici, ma gambe che ci consentono di muoverci qua e là e recarci dove ci conviene.
Il progetto europeo nasce, come a suo tempo la stessa democrazia, da uno sradicamento: non si è europei per la purezza del ceppo ma per le leggi condivise. Peraltro, tutti gli Stati moderni sono nati da un movimento analogo, che ha radunato diverse etnie, tribù, lingue e usanze popolari sotto una comune amministrazione, destinata a rendere gli individui uguali per diritti e doveri, liberandoli dalle strettoie collettive delle rispettive origini locali. Essi rappresentano quindi il primo passo verso il successivo cosmopolitismo post-nazionale. Ecco qual è il pericolo dei movimenti separatisti e disgregatori dello Stato che oggi si sviluppano in Europa, e più particolarmente in Spagna. Il nazionalismo separatista di catalani e baschi pretende di trasformare la diversità culturale in frammentazione politica. Il “diritto di decidere”, che definisce la cittadinanza democratica, spetta secondo loro ai territori e non agli individui, i quali sarebbero cittadini dello Stato solo parzialmente; e la sovranità di ciascuno risulterebbe ristretta in base a determinazioni pre-democratiche e persino pre-politiche quali l’etnia, la genealogia, la geografia o la lingua. In alcuni territori si chiede un referendum per decidere se continuare o meno a far parte dello Stato, ammettendo però al voto solo chi è preventivamente identificato come “catalano” o “basco”: in altri termini, si vuol far accettare a priori ciò che dovrebbe essere determinato attraverso la consultazione.
Nella Spagna franchista il castigliano era l’unica lingua spagnola autorizzata nel sistema scolastico e nei rapporti con l’amministrazione. Attualmente viviamo nel solo Paese dell’Ue ove in alcune aree dello Stato la lingua ufficiale comune non è ammessa per gli stessi usi.
Oggi i separatisti in Spagna si appoggiano ai partiti populisti e cercano di far leva sull’indignazione provocata dalla crisi, dalla corruzione e dagli sprechi. Il resto dell’Europa si disinteressa di questi conflitti, definiti “interni”. Ma le rivendicazioni disgregatrici si stanno affermando anche in altri Paesi, e un successo dei separatismi in Spagna contribuirebbe a rafforzarle. Non dimentichiamo che nel secolo scorso un conflitto spagnolo è servito da prova generale a un tragedia europea…
L’autore è uno scrittore e filosofo spagnolo che scrive per ” El País” (Traduzione di Elisabetta Horvat)