19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Federico Fubini

Il voto servirà anche a dire se vogliamo un futuro in cui, mentre litighiamo tra noi europei, vediamo lo sgomitare delle grandi potenze per spartirsi un continente un tempo grande e oggi solamente ricco


La corsa all’Africa è quella fase fra gli anni 80 del diciannovesimo secolo e la prima guerra mondiale in cui le potenze europee sgomitarono l’una contro l’altra per spartirsi il continente più debole. La corsa all’Europa è la stagione di cui potremmo vedere oggi i presagi: lo sgomitare delle grandi potenze del ventunesimo secolo, nuove e vecchie, per spartirsi un continente un tempo grande e oggi solamente ricco. Una terra di conquistatori sta diventando terra di conquista per colpa della propria stessa miopia, della propria incapacità di coalizzare le notevoli forze che ancora possiede. Dopo aver perso un decennio ripiegata prima sulla propria crisi, poi sulle risposte sbagliate o tardive ad essa, l’Unione Europea si sta risvegliando sotto scacco in un quadro internazionale ormai irriconoscibile. Vediamolo un attimo, ora che quattrocento milioni di elettori sono chiamati alle urne per dire (anche) quale posto collettivamente vogliono occupare nel mondo. Per ora Donald Trump ha rinviato ogni decisione sulle auto europee, ma a questo punto può decidere nuovi dazi comunque entro la fine dell’anno. Anche solo il rischio che ciò accada, tutt’altro che piccolo, ricorda alla zona euro la sua doppia vulnerabilità: dipendente in modo cronico dalle esportazioni, per declino demografico e libera scelta di grandi nazioni come l’Italia e la Germania, già oggi si trova esposta più di ogni altra area del mondo alla guerra commerciale fra gli Stati Uniti e la Cina. Non è un caso se proprio nelle due maggiori economie manifatturiere dell’area, Germania e Italia, la crescita è più bassa e vicinissima ormai a zero.
Intanto quegli stessi Paesi e l’Europa tutta si rendono conto all’improvviso di essere nani tecnologici. Il mercato più grande, dal tenore di vita nel complesso più alto al mondo, piazza un solo gruppo fra i primi venti colossi digitali e piuttosto indietro in classifica (la tedesca Sap). L’Europa è in ritardo nel nuovo standard di telecomunicazioni G5, destinato a trasformare quasi tutto nel traffico urbano e nelle catene di fornitura globali, tanto che l’Europa è sempre più esposta proprio alle incursioni della cinese Huawei che la Casa Bianca e la stessa Google ormai hanno formalmente messo su una lista nera. I Paesi europei, Germania e Italia soprattutto, non hanno capito per tempo la rivoluzione tecnologica dell’auto autonoma e soprattutto dell’auto elettrica e oggi viaggiano in ritardo su cinesi, americani e coreani nelle aree dove è racchiuso il massimo valore di queste tecnologie: l’intelligenza artificiale e le batterie al litio. Soprattutto l’auto elettrica, il cui motore è composto di un unico pezzo che nessuno ancora in Europa sa produrre autonomamente, minaccia di spazzare via milioni di produttori di componenti (di nuovo, soprattutto tedeschi e italiani).
Nel frattempo si è lasciato che con un pugno di miliardi pochi gruppi cinesi, sempre vicini al potere politico, prendessero il controllo di tutte le imprese strategiche di Grecia e Portogallo. Si è permesso che il governo di Pechino formalizzasse un’intesa strategica con sedici Paesi d’Europa centrale e orientale, fino ai confini dell’Italia, dell’Austria e della Germania. E chissà se hanno torto i francesi, quando si preoccupano delle implicazioni a venire dall’ingresso dei cinesi nei porti di Trieste e di Genova: quegli accordi portano investimenti molto positivi, ma cosa risponderemo se Pechino domani chiederà di poter assicurare la sicurezza delle sue nuove rotte mediterranee scortando i mercantili con le proprie navi da guerra?
L’elenco dei varchi aperti che stanno facendo dell’Europa terra di conquista dei grandi del mondo potrebbe continuare. Alla Russia Berlino ha permesso di costruire un gasdotto verso la Germania, che taglia fuori e dunque rende molto più vulnerabili Polonia e Ucraina. Quest’ultima da anni è stata letteralmente fatta a pezzi da Vladimir Putin, che nel frattempo compete con Trump (e più discretamente con i cinesi) per assicurarsi buoni rapporti con il campione della democrazia illiberale ungherese Viktor Orbán. In Libia l’eterna e ormai sterile rivalità italo-francese ha spalancato le porte del Paese all’influenza bellicosa di potenze tutt’altro che trasparenti e democratiche come Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, Egitto, la stessa Russia. Davvero vogliamo che alle porte di casa nostra siano loro a fare il bello e cattivo tempo, invece di provare a trovare un accordo con Parigi?
Nella difesa non va meglio. L’amministrazione Trump ha appena scritto una lettera di messa in mora a Bruxelles, avvertendo gli europei di non provare neanche ad avanzare nel loro progetto di difesa comune (anche perché diminuirebbero le commesse ai gruppi di armamenti statunitensi). Giorni fa Mike Pompeo, il Segretario di Stato americano, ha cancellato all’ultimo un incontro con Angela Merkel come se non si trattasse della leader del più grande alleato di Washington in Europa. L’accordo sul nucleare iraniano, il più grande successo diplomatico di Bruxelles in questi anni, è stato smembrato da Washington e dalla stessa Teheran. E gli europei restano lontani anni luce dal saper utilizzare l’euro come strumento di pressione geopolitica, come gli americani fanno con il dollaro per esempio attraverso sanzioni extraterritoriali su chiunque commerci con l’Iran. Non solo siamo sotto scacco, stiamo diventando una terra da spartire fra le potenze di questo secolo. Tutti noi europei, mentre litighiamo gli uni con gli altri. Quando si vota, a partire da oggi, è soprattutto per dire se è davvero questo il futuro che vogliamo. O se invece è venuto il momento di svegliarsi e cooperare molto meglio e di più fra noi.

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