19 Settembre 2024
Quirinale2

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Si parla della prossima elezione, non per la figura del presidente, ma per il contesto che dovrà gestire. Ora il Paese è frammentato come non era mai stato prima

Mai ci si è interrogati tanto insistentemente su chi sarà il prossimo presidente della Repubblica. Mai come in questi mesi la sua elezione ha attratto tanta attenzione delle forze politiche e dell’opinione pubblica. La politica sembra essere sospesa in attesa del prossimo mese di gennaio. La ragione di questo interesse straordinario non sta — come si è detto — nel fatto che il nostro Stato potrebbe evolvere da una Repubblica parlamentare verso una Repubblica semipresidenziale. Quest’ultimo termine e la relativa nozione furono una geniale invenzione del giurista e politologo francese, universalmente noto, Maurice Duverger (1917 – 2014). La denominazione indicava una repubblica con un capo dello Stato eletto dal popolo, dotato di alcuni poteri propri (in particolare, politica estera e di difesa) più un governo che deve però ottenere la fiducia del Parlamento. La formula, esposta nel 1970, fu giudicata da uno dei maggiori studiosi francesi un delicato esempio di pasticceria e non è attuabile in Italia, dove il presidente è eletto dal Parlamento. È vero invece che un regime presidenziale «è reso possibile dalla lettera e dallo spirito della Costituzione» — così scriveva, pochi mesi prima della morte, il 15 dicembre 1958, un grande giurista della scuola senese, che era stato ministro nel primo governo De Gasperi e ricopriva la carica di giudice costituzionale, Mario Bracci, al suo amico presidente Giovanni Gronchi.
Bracci aggiungeva che «non occorre mutare la Costituzione per governare efficacemente l’Italia». Ma Bracci pensava all’ipotesi che si stabilisse un «continuum» maggioranza elettorale-maggioranza parlamentare-governo-Presidente della Repubblica, consentendo al presidente di agire come guida del governo e del Parlamento. E questo rivela la saggezza della Democrazia cristiana, il partito di maggioranza relativa, sempre al governo per i primi cinquanta anni della storia repubblicana: quel partito, per evitare una tale concentrazione di potere, non candidò mai al Quirinale uno dei propri leader (Gronchi, Leone, Cossiga e Scalfaro non furono mai capi di correnti maggioritarie di quel partito e Einaudi, Saragat e Pertini appartenevano ad altri schieramenti).
Se l’elezione presidenziale non attira tanto interesse perché ci si avvia verso una presidenzializzazione del sistema politico italiano, perché, dunque, tanto parlare e discutere della prossima elezione? Ritengo che la spiegazione non stia tanto nella figura del prossimo presidente quanto nel contesto che egli si troverà a gestire.
È noto che il presidente italiano ha innanzitutto un ruolo, quello di gestore delle crisi di governo. Suo compito è di dare un governo al Paese; nell’impossibilità di farlo, di sciogliere il Parlamento e di ridare voce ai cittadini. Fino alla presidenza Cossiga, i presidenti italiani hanno dovuto gestire una crisi per anno (Leone e Pertini anche più di una), e Leone, Pertini, Cossiga e Scalfaro hanno dovuto sciogliere più di una volta il Parlamento. Con la cosiddetta Seconda Repubblica, le crisi di governo sono divenute meno frequenti.
Tuttavia, ora, il Paese è frammentato come non lo era mai stato prima. Vi sono quattro forze politiche che rappresentano circa il 20 per cento dell’elettorato e altre sei che oscillano tra il 2 e l’8 per cento dell’elettorato. Inoltre, tutte e dieci le forze politiche presentano faglie interne. In più, l’attuale rappresentanza parlamentare è composta in modo diverso da quella che potrebbero produrre le prossime elezioni. Infine, i vertici di partito non controllano i relativi gruppi parlamentari. Quindi, ci si aspetta che il prossimo presidente svolga un ruolo accentuato di gestore delle crisi, perché si prevede che la frammentazione richieda il massimo sforzo combinatorio dal prossimo inquilino del Quirinale. Questo potrebbe dormire sonni tranquilli, non diversamente dal presidente tedesco, se le forze politiche avessero capacità di associarsi in alleanze stabili. Ma si prevedono anni turbolenti, e quindi ci si può attendere l’esercizio frequente dei poteri che la Costituzione attribuisce al presidente.
Se si parla tanto della prossima elezione non perché la fisarmonica dei poteri presidenziali si amplia, ma perché si prevede che il presidente sarà più frequentemente chiamato a mettere insieme i cocci di forze politiche abili nel dividersi e incapaci di allearsi, chi teme ferite costituzionali non deve tanto preoccuparsi dell’accentramento di troppi poteri nel presidente, quanto delle distrazioni che da questo ruolo pacificatore del presidente possono derivare.
Un presidente troppo impegnato nel compito di levatrice e poi nutrice del governo, ad esempio, potrebbe essere costretto a prestare minore attenzione alla tenuta parlamentare dell’azione di governo. Questo è un fenomeno che già oggi si realizza: basta vedere quante addizioni, modifiche e stravolgimenti il Parlamento introduce nei disegni di legge del governo (e nei decreti legge da convertire). Se il governo non riesce ad agire come il comitato direttivo della maggioranza parlamentare, l’unico organo di correzione è il Presidente della Repubblica, che promulga le leggi, può rinviarle al Parlamento, autorizza la presentazione al Parlamento dei disegni di legge. Ma il presidente non deve essere sovraccaricato dal compito di levatrice/nutrice del governo, per poter svolgere questo compito.<
Un altro potere presidenziale oscurato dalle funzioni presidenziali relative al governo è quello che riguarda la presidenza del Consiglio superiore della magistratura (Csm). I Presidenti della Repubblica hanno personalmente presieduto il Csm, mediamente, da un minimo di una a un massimo di quattro volte all’anno (con l’eccezione di Segni, che fu particolarmente diligente nell’assolvere questo compito).
Un terzo compito che già in passato è stato negletto è quello di custode della Costituzione, e principalmente del principio su cui la carta costituzionale è intessuta, quello del merito, così efficacemente riassunto di recente da un filosofo del linguaggio: «a) le carriere devono essere aperte ai talenti, b) a tutti devono essere date uguali opportunità, c) posti e posizioni devono essere assegnati a chi li merita» (Marco Santambrogio, Il complotto contro il merito, Bari-Roma, Laterza, 2021, p. 192).
Conclusione: il gran parlare della prossima elezione presidenziale a) suggerisce che ci si prepara a una forte instabilità; b) non deve far temere stravolgimenti costituzionali; c) consiglia di scegliere un presidente abile nella capacità di persuasione e nell’arte combinatoria; d) fa temere che le sue energie possano essere consacrate a questi compiti, trascurando gli altri, che sono anch’essi importanti.

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