I punti da chiarire. Ma se fossimo nel premier israeliano Netanyahu ci sottoporremmo al processo
Fossimo nei panni di Benjamin Netanyahu, ci dichiareremmo disponibili a subire il processo minacciato dalla Corte dell’Aia. Compreso l’arresto. Suggeriremmo poi al ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant di fare la stessa cosa. Lo faremmo oggi stesso anche se quella del procuratore capo Karim Ahmad Khan è al momento solo una richiesta di incriminazione. E se Israele non ha mai riconosciuto la giurisdizione della Corte dell’Aia sul proprio Stato. Rinunceremmo a sottolineare l’anomalia della scelta di prendere una decisione di tale natura accomunandoci a tre leader di Hamas (Yahya Sinwar, Ismail Haniyeh e Mohammed Deif detto «il fantasma»).
Decisione sconvolgente sotto tre profili. In primo luogo, perché al momento non esiste uno Stato palestinese su cui Khan possa esercitare giurisdizione. Poi — e questo forse è più rilevante — perché i misfatti di cui al capo di accusa sono stati consumati dagli imputati il 7 ottobre del 2023 e non c’era bisogno di sette mesi per «raccoglierne le evidenze». Anche perché, terzo motivo, le prove sono state fornite volenterosamente dagli stessi autori del delitto che — a fini di propaganda — hanno accuratamente filmato ogni loro atroce gesto.
Né, fossimo in Netanyahu, solleveremmo questione sull’irritualità del comportamento di Khan, il quale ha annunciato via tv la richiesta d’arresto nel momento esatto in cui la sua «squadra» stava per imbarcarsi su un aereo per Israele. Dove avrebbe dovuto verificare il funzionamento degli aiuti umanitari volti a portar sollievo alla popolazione di Gaza.
Fossero giunti a destinazione, gli appartenenti alla squadra di Khan avrebbero potuto constatare che, aperti o chiusi i valichi di Rafah, Kerem Shalom ed Erez, è da giorni in funzione il molo predisposto dagli Stati Uniti per consentire ai sussidi alimentari e farmaceutici di giungere via mare sulla terra di Gaza. Ad ogni evidenza Khan ha considerato superfluo un tale accertamento.
Non apriremmo, mettendoci sempre nei panni di Netanyahu, un caso sul personaggio Khan, un valente giurista cinquantaquattrenne, scozzese di origini pachistane. Evitando di soffermarci sui motivi per cui né la Scozia, né il Pakistan — per motivi diversi, approfonditi dagli storici — sono eccessivamente ben disposti nei confronti degli ebrei. In Scozia questa assenza di pregiudizio a favore degli israeliti accomuna i laburisti ai conservatori, famiglia, quest’ultima, alla quale Khan in senso lato appartiene. Non lo faremmo perché è sempre doveroso presumere che un individuo istruito e che ne abbia la volontà sia in grado di emanciparsi dal contesto di provenienza.
Né terremmo conto del fatto che come avvocato — prima di essere eletto nel 2021 procuratore capo alla Corte penale internazionale dell’Aia — Khan abbia difeso (senza successo) l’ex dittatore liberiano Charles Taylor, condannato a cinquant’anni di carcere, nonché il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, condannato a morte da un tribunale del suo Paese, poi, però salvato dai russi della milizia Wagner. Tanto meno gli rinfacceremmo di aver difeso (stavolta con successo) il sanguinario dittatore kenyota William Ruto, il quale lo avrebbe ripagato dandogli un piccolo aiuto al momento dell’elezione a presidente della Corte dell’Aia. Un avvocato ha l’obbligo deontologico di esercitare la propria professione in modo che ogni genere di cliente possa esercitare il legittimo diritto di essere difeso. Khan si è prestato e non si discute.
Faremmo forse notare che, quando si trattò di incriminare Putin — un anno e un mese dopo l’aggressione al Paese di Zelensky — Khan trascurò l’immane devastazione del Paese invaso, e si limitò a mettere sotto il riflettore la «deportazione dei bambini ucraini in Russia». Caso che ha attirato l’attenzione del cardinale Matteo Zuppi. Purtroppo, senza successo. Così l’incriminazione per Putin fu estesa alla Commissaria russa per i diritti dell’infanzia Maria Lvova-Belova. Invece il ministro russo della difesa Sergej Shoigu — già nel mirino di Unione europea, Stati Uniti e Canada — fu ignorato da Khan. Non così, adesso, Gallant. Che pure ha più di una volta pubblicamente obiettato alle decisioni di Netanyahu. Un dettaglio non irrilevante quello di coinvolgere o meno il ministro della Difesa. Una sua eventuale condanna potrebbe avere conseguenze su ufficiali rei di aver agito su disposizione del «criminale» Gallant.
In ogni caso, fossimo in Netanyahu, ci sottoporremmo al giudizio. Partecipando ad ogni seduta del processo e portando tutte le prove possibili della non intenzionalità di Israele nel massacro che si è compiuto a Gaza. Siamo ben consapevoli che per Netanyahu la sentenza di condanna definitiva con ogni probabilità è già stata scritta. E che non ci sarà prova a discolpa che smuoverà la coscienza di quanti hanno già condannato il suo Paese. Nemmeno uno. Ma, fossimo in lui, ci sottoporremmo senza rimpianti a un regime di detenzione mentre Sinwar, Haniyeh, Deif, Putin e Lvova-Belova continuano ad andarsene a spasso in giro per il mondo. Sarebbe da parte di Netanyahu una decisione clamorosa che ci costringerebbe a riconsiderare di che pasta è fatto un primo ministro — o, se volete, un semplice cittadino — israeliano. E non è detto che per lui sarebbe l’uscita di scena peggiore.