Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Franco
L’epitaffio digitale è arrivato da Washington una settimana fa. «Steve Bannon, il crociato fallito», ha scritto il settimanale online filoeuropeo The Globalist. Prima ancora che la Commissione Ue si costituisse, come grande sconfitto anche simbolico del voto del 26 maggio è stato additato l’ex stratega di Donald Trump, regista poco occulto del tentativo di disgregare l’Unione europea. E con lui, nel girone dei reietti politici è stata messa l’intera filiera dei partiti, movimenti e leader che sognavano di scardinare gli equilibri continentali; e di sostituirli con un nazionalismo eurofobico destinato in realtà a coprire la doppia subalternità a Russia e Stati uniti. Il messaggio che proviene dal nuovo esecutivo continentale guidato da Ursula von der Leyen è la ricomposizione dell’Europa, dei suoi interessi minacciati mai così da vicino come negli ultimi tre anni, e di un’identità che ha bisogno di compattezza e ripresa economica per rilegittimarsi.
Per vincere la sfida mancava l’Italia. Ma la mossa del premier Giuseppe Conte di appoggiare l’elezione di von der Leyen, e il maldestro suicidio politico agostano del capo leghista Matteo Salvini, ammiratore e seguace delle teorie di Bannon, stanno chiudendo il cerchio. Si aspetta la sorte del britannico Boris Johnson, ma il caos nel Regno unito del Brexit è già uno spot involontario a favore dell’Europa. L’esclusione da qualunque carica governativa e dai vertici delle commissioni di quest’area culturale e politica promette di essere qualcosa di più di una ritorsione per le minacce e lo spavento di una propaganda agguerrita. Va letta insieme alla sospensione dal Ppe alla vigilia del voto del 26 maggio del presidente ungherese Viktor Orbán, che ha civettato con l’eurofobia e con gli altri sovranismi: tranne poi tornare a Canossa dalla cancelliera tedesca Angela Merkel subito dopo il voto.
In realtà, si profila una strategia tesa a escludere il più a lungo possibile i «cloni» europei di Bannon, con le loro opache connessioni internazionali, dai governi nazionali e dalle istituzioni di Bruxelles. Una sorta di aggiornamento della «cortina di ferro» calata non, come durante la Guerra fredda, sui partiti comunisti nell’orbita dell’Unione sovietica, ma su una destra sospettata di essere satellite della Russia di Vladimir Putin, e di qualche potere statunitense anti Ue. Denis MacShane, ex ministro britannico per gli Affari europei tra 2002 e 2005, lo ha teorizzato proprio sul Globalist. «Dopo il 1945», ha osservato, «in Francia e Italia ci sono stati grandi partiti comunisti anti establishment, anti europei e anti immigrazione che hanno preso oltre il 30% dei voti. Ma non sono mai andati al governo. Adesso, almeno finora, i populisti xenofobi potrebbero raggiungere gli stessi livelli di consenso, ma sono stati fermati…».
Da noi la Lega al governo c’è andata, per quattordici mesi. E se oggi è fuori, lo deve soprattutto ai propri errori. Il ragionamento, tuttavia, enuncia uno schema chiaro. Per ora rimane solo un’indicazione. Presto, però, senza un chiarimento della collocazione internazionale di molte formazioni sovraniste, potrebbe trasformarsi in una «conventio ad excludendum» non scritta ma rigida quanto quelle del passato: soprattutto se l’opposizione si esaurisse in proteste antisistema e di piazza tali da confinarla su posizioni estremistiche. È significativo lo smarcamento in Italia di Silvio Berlusconi da questo approccio, scelto almeno per ora dalla Lega e da Fratelli d’Italia. La Commissione von der Leyen viene definita «geopolitica». E nella scelta della danese Margrethe Verstager come commissario alle tecnologie digitali e dell’irlandese Phil Hogan al commercio, il Financial Times già intravede la volontà di creare un chiaro spartiacque con la Russia, un contrasto allo strapotere delle multinazionali statunitensi ma anche eventuali pretese di un Regno unito che arrivasse al Brexit.
Si tratta di mosse in linea con la volontà di ricompattare le nazioni europee intorno ai Paesi fondatori e alle «famiglie» politiche storiche, per quanto sgualcite e insidiate elettoralmente, con l’aggiunta dei Verdi. Rivedendo al rallentatore gli ultimi mesi, il fallimento del fronte sovranista assume contorni più nitidi: nonostante la consistenza di quello schieramento eterogeneo, cresciuto nella scia della crisi finanziaria del 2009, non sia destinata a ridursi nel breve periodo. L’affermazione dell’estrema destra di Afd, interlocutrice di Salvini, nella Germania est, non ha scalfito il primato di Cdu e Spd. La destra francese di Marine Le Pen è all’opposizione. La Danimarca ha un primo ministro socialdemocratico, come la Svezia. E gli scandali che hanno colpito i sovranisti in Austria, Romania, Bulgaria e Repubblica Ceca hanno lasciato Orbán e il polacco Jaroslaw Kaczynski privi di influenza fuori dai rispettivi Paesi.
Riguardando ora la foto di gruppo per la manifestazione di Milano voluta da Salvini nell’aprile scorso con l’ambizione di far diventare quello populista il primo gruppo a Bruxelles, sembra scattata un secolo fa. La politica europea e atlantica è un pezzo fondamentale della politica interna. Non capirlo rischia di provocare un equivoco permanente tra voti presi e possibilità di farli pesare. A danno di tutti.
Per vincere la sfida mancava l’Italia. Ma la mossa del premier Giuseppe Conte di appoggiare l’elezione di von der Leyen, e il maldestro suicidio politico agostano del capo leghista Matteo Salvini, ammiratore e seguace delle teorie di Bannon, stanno chiudendo il cerchio. Si aspetta la sorte del britannico Boris Johnson, ma il caos nel Regno unito del Brexit è già uno spot involontario a favore dell’Europa. L’esclusione da qualunque carica governativa e dai vertici delle commissioni di quest’area culturale e politica promette di essere qualcosa di più di una ritorsione per le minacce e lo spavento di una propaganda agguerrita. Va letta insieme alla sospensione dal Ppe alla vigilia del voto del 26 maggio del presidente ungherese Viktor Orbán, che ha civettato con l’eurofobia e con gli altri sovranismi: tranne poi tornare a Canossa dalla cancelliera tedesca Angela Merkel subito dopo il voto.
In realtà, si profila una strategia tesa a escludere il più a lungo possibile i «cloni» europei di Bannon, con le loro opache connessioni internazionali, dai governi nazionali e dalle istituzioni di Bruxelles. Una sorta di aggiornamento della «cortina di ferro» calata non, come durante la Guerra fredda, sui partiti comunisti nell’orbita dell’Unione sovietica, ma su una destra sospettata di essere satellite della Russia di Vladimir Putin, e di qualche potere statunitense anti Ue. Denis MacShane, ex ministro britannico per gli Affari europei tra 2002 e 2005, lo ha teorizzato proprio sul Globalist. «Dopo il 1945», ha osservato, «in Francia e Italia ci sono stati grandi partiti comunisti anti establishment, anti europei e anti immigrazione che hanno preso oltre il 30% dei voti. Ma non sono mai andati al governo. Adesso, almeno finora, i populisti xenofobi potrebbero raggiungere gli stessi livelli di consenso, ma sono stati fermati…».
Da noi la Lega al governo c’è andata, per quattordici mesi. E se oggi è fuori, lo deve soprattutto ai propri errori. Il ragionamento, tuttavia, enuncia uno schema chiaro. Per ora rimane solo un’indicazione. Presto, però, senza un chiarimento della collocazione internazionale di molte formazioni sovraniste, potrebbe trasformarsi in una «conventio ad excludendum» non scritta ma rigida quanto quelle del passato: soprattutto se l’opposizione si esaurisse in proteste antisistema e di piazza tali da confinarla su posizioni estremistiche. È significativo lo smarcamento in Italia di Silvio Berlusconi da questo approccio, scelto almeno per ora dalla Lega e da Fratelli d’Italia. La Commissione von der Leyen viene definita «geopolitica». E nella scelta della danese Margrethe Verstager come commissario alle tecnologie digitali e dell’irlandese Phil Hogan al commercio, il Financial Times già intravede la volontà di creare un chiaro spartiacque con la Russia, un contrasto allo strapotere delle multinazionali statunitensi ma anche eventuali pretese di un Regno unito che arrivasse al Brexit.
Si tratta di mosse in linea con la volontà di ricompattare le nazioni europee intorno ai Paesi fondatori e alle «famiglie» politiche storiche, per quanto sgualcite e insidiate elettoralmente, con l’aggiunta dei Verdi. Rivedendo al rallentatore gli ultimi mesi, il fallimento del fronte sovranista assume contorni più nitidi: nonostante la consistenza di quello schieramento eterogeneo, cresciuto nella scia della crisi finanziaria del 2009, non sia destinata a ridursi nel breve periodo. L’affermazione dell’estrema destra di Afd, interlocutrice di Salvini, nella Germania est, non ha scalfito il primato di Cdu e Spd. La destra francese di Marine Le Pen è all’opposizione. La Danimarca ha un primo ministro socialdemocratico, come la Svezia. E gli scandali che hanno colpito i sovranisti in Austria, Romania, Bulgaria e Repubblica Ceca hanno lasciato Orbán e il polacco Jaroslaw Kaczynski privi di influenza fuori dai rispettivi Paesi.
Riguardando ora la foto di gruppo per la manifestazione di Milano voluta da Salvini nell’aprile scorso con l’ambizione di far diventare quello populista il primo gruppo a Bruxelles, sembra scattata un secolo fa. La politica europea e atlantica è un pezzo fondamentale della politica interna. Non capirlo rischia di provocare un equivoco permanente tra voti presi e possibilità di farli pesare. A danno di tutti.