I Costituenti esclusero esplicitamente il presidenzialismo in una società frammentata
La questione della nostra forma di governo è stata lasciata dichiaratamente aperta dal 1948. Chiuderla significherebbe completare, piuttosto che riformare la Costituzione. Se, dopo 75 anni, è possibile riprendere il lavoro della Costituente, è perché l’arco parlamentare sembra finalmente coincidere con l’arco costituzionale, nella cornice dell’ordinamento europeo. «Completare» vuol dire innovare: ma lungo il tracciato d’allora che fu di sostanza e controllo parlamentare. Stabilità ed efficacia del governo devono perciò seguire senza strappi quella corsia.
Fin dalle origini sappiamo che la posizione del presidente del Consiglio, per quanto ampia sia la sua maggioranza (e per quanto decisivi siano i suoi poteri, nel frattempo acquisiti nel sistema euro-nazionale) non è garantita da una base costituzionale contro le «degenerazioni» della politica di corto respiro. Restando nel sistema parlamentare, questa garanzia può costruirsi scrivendo in Costituzione che chi presiede il governo e ne indirizza l’azione debba essere eletto dal Parlamento a Camere riunite. Con il conseguente meccanismo della sfiducia costruttiva che, da un lato, è premessa di durata per i programmi di governo; dall’altro, assicura al Parlamento uno strumento non meramente demolitorio ma capace di dar vita, in caso di irreversibile crisi, a un’altra maggioranza. Una integrazione costituzionale, dunque, per favorire un «governo di legislatura»: coerente con i nostri impegni pluriennali europei.
Si potrebbe far meglio con un «tipo di governo» a elezione diretta? No. I Costituenti esclusero esplicitamente il presidenzialismo con la motivazione che non avrebbe «risposto alle condizioni della società italiana». Fu un criterio oggettivo, non ideologico. Prevalse la convinzione che l’elezione diretta del vertice del governo in una società politicamente frammentata — e in più divaricata dalla questione comunista — avrebbe provocato una irrimediabile frattura di legittimazione.
Tutto è cambiato da allora, ma non il metodo di realismo politico da seguire nella scelta della forma di governo. Oggi le «condizioni» sociali a cui fattualmente guardare sono quelle di una società di individui isolati di massa. Una società sostanzialmente indifesa di fronte al populismo digitale, invadente secondo logiche avverse ai principi del pluralismo.
Sarebbe fuori dal nostro tempo tapparsi nel recinto giuridico-formale, chiudendo gli occhi di fronte a minacce che segnano la fine delle illusioni sugli strumenti di democrazia diretta. La loro sostenibilità politica diminuisce fatalmente mano a mano che crescono le evidenze sulla vulnerabilità di una società atomizzata: nel gran vuoto della mediazione partitica di base. Non ci sarebbe quindi solo la scomposizione di un equilibrio costituzionale consolidato: quello che trova il suo ancoraggio nel ruolo del presidente della Repubblica, un ruolo non fatto esclusivamente di norme scritte. Il cuneo dell’elezione diretta, sia essa del vertice dello Stato sia essa del presidente del Consiglio, porterebbe nel cuore della nostra convivenza politica tutti i rischi sociali — anzi, già i guasti — cui la ragione del mondo sta cercando affannosamente di far fronte.
Le incertezze della realtà richiedono semmai rimedi che vadano in senso opposto, cioè innovazioni nella rappresentatività, nella intermediazione, nei contrappesi, nelle «riserve» di minoranza: insomma, una aggiornata necessità di parlamentarismo.
Il compito primario del costituzionalismo attuale è nella costruzione di argini contro i crescenti poteri di manipolazione dell’opinione pubblica. E questo compito non è in contrasto, ma complementare all’altro — irrinunciabile — di rafforzare l’azione di governo