Fonte: La Stampa
di Alessandro Barbera
A maggio la produzione industriale a Berlino è scesa del 2,2 per cento. Ecco perché è una pessima notizia per Roma
Segnali di ripresa in Italia «episodici». Previsioni di rallentamento nell’intera zona euro per il secondo trimestre. E pessime notizie a maggio dall’industria tedesca, dove le commesse sono scese del 2,2 per cento, peggio di quanto prevedessero le stime. Che cosa significa per l’Italia? La crescita è inchiodata poco sopra lo zero, e i numeri del centro studi di Confindustria non inducono all’ottimismo. Nonostante i recuperi di maggio e giugno, la produzione industriale nel secondo trimestre dovrebbe scendere dello 0,7 per cento, e non solo a causa della debolezza della domanda interna, che pure il governo prometteva di rilanciare con il reddito di cittadinanza. Va male anche la domanda estera.
L’Italia è una delle economie che più di ogni altra risente di quel che accade oltre il confine tedesco. E la ragione è presto detta: forniamo a quel sistema il 22 per cento delle componenti del comparto auto, il 20 per cento dei semilavorati per la siderurgia, il 18 per cento dei prodotti necessari all’industria della plastica. Ben undici regioni italiane su 20 hanno una quota di export verso la Germania che oscilla fra il 20 e 40 per cento del valore aggiunto. Il capoeconomista di Confindustria Andrea Montanino spiega che sull’industria tedesca pesano molto i timori dei dazi americani verso il settore europeo dell’auto. Ed è difficile immaginare che le cose cambino nel corso dell’anno. Tutti invocano un aumento degli investimenti in Germania, ma da Berlino non arrivano segnali in questo senso. «In questa fase hanno fatto della discesa del debito un fatto quasi costitutivo. Non vedo spazi per un’iniziativa sugli investimenti, se non a livello europeo».
In condizioni di mercato normali tutto ciò dovrebbe essere sufficiente a mettere in allarme gli investitori. Eppure dopo l’ultima decisione del governo di ridurre nuovamente il deficit attorno al due per cento lo spread con i Bund tedeschi è ridisceso attorno ai 200 punti base. Come mai? La risposta è ancora una volta nella politica monetaria, al di qua e al di là dell’Atlantico. Mario Draghi, ormai vicino alla fine del suo mandato, lascerà in eredità a Christine Lagarde un orientamento molto espansivo, abbastanza per evitare di allargare il solco fra le economie dell’area euro.
A incidere ancora di più in questa fase è l’atteggiamento della Federal Reserve che ha interrotto la risalita dei tassi, e nonostante l’ottimo andamento dell’economia americana. «Finché la Fed manterrà questa linea, per gli investitori americani i rendimenti italiani restano convenienti», spiega Francesco Giavazzi. E se è vero che la prudenza di Jerome Powell nell’alzare i tassi sia dovuta alle pressioni della Casa Bianca, allora «per dirla con una battuta dobbiamo un po’ ringraziare Trump». Inutile illudersi però: lo dimostra la vicenda dei dazi e lo dice la logica delle previsioni. «Al massimo nel 2020 i tassi americani dovranno riprendere a salire, e a quel punto l’Italia si troverà impreparata», avverte Giavazzi. Accadde al Messico prima della crisi del 1994. Accadde, con presupposti diversi, all’Italia nel 2011.