Fonte: SkyTG24
In tutto il nostro continente la pandemia di COVID-19 sta riscrivendo le agende politiche per i prossimi anni. Tuttavia la lotta al cambiamento climatico rimane indiscutibilmente tra le priorità dell’attuale Commissione europea, così come confermato dall’impegno a destinare una quota cospicua delle risorse del Next Generation EU alla transizione energetica. La strategia dell’Unione europea nel campo della lotta al cambiamento climatico è stata descritta nel Green Deal europeo. Adottato nel Dicembre 2019, questo è stato tra i primi e più importanti atti della Commissione Von der Leyen. Il Green Deal si definisce come “una strategia di crescita” che ambisce a “trasformare l'UE in una società giusta e prospera, dotata di un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva” e che sia carbon-neutral entro il 2050. Quello che il legislatore e in generale il policy-maker italiano non possono però sottovalutare è che un simile processo passa anche per valutazioni e decisioni prese al livello nazionale. A partire, per esempio, dalle questioni non semplici della misurazione dei sussidi alle fonti fossili e della loro rimodulazione, analizzate in questo Policy Brief. Obiettivi da perseguire soprattutto in sede di Legge di Bilancio ma rispetto ai quali il nostro Paese, non unico nell’UE, è ancora in ritardo.
A Bruxelles come nelle capitali nazionali, la pandemia di COVID-19 sta riscrivendo le agende politiche per i prossimi anni. Tuttavia, la lotta al cambiamento climatico rimane indiscutibilmente tra le priorità per l’attuale Commissione europea, così come confermato dall’impegno a destinare una quota cospicua delle risorse del Next Generation EU alla transizione energetica.
La strategia dell’UE nel campo della lotta al cambiamento climatico è stata descritta nel Green Deal europeo. Adottato nel Dicembre 2019, questo è stato tra i primi e più importanti atti della Commissione Von der Leyen. Il Green Deal europeo si definisce come “una strategia di crescita” che ambisce a “trasformare l’UE in una società giusta e prospera, dotata di un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva” e che sia carbon-neutral entro il 2050, cioè capace di non generare emissioni nette di gas a effetto serra. Questa trasformazione dovrà, al contempo, essere giusta e inclusiva, cioè dovrà avvenire senza lasciare indietro cittadini, lavoratori e territori il cui benessere economico dipende in maniera significativa da attività ad alta intensità di emissioni o da quelle estrattive (per esempio il carbone). Per raggiungere questo obiettivo orizzontale, che cioè riguarda l’intera società ed economia europea, il Green Deal è concepito come una strategia di lungo termine tesa ad influenzare varie politiche europee (energetiche, industriali, agricole).
Gli obiettivi ambiziosi di questa politica richiedono investimenti consistenti, in primo luogo a livello di bilancio europeo. Il principale strumento di sostegno previsto al momento è il >piano di investimenti del Green Deal europeo che si pone come obiettivo di mobilitare 1.000 miliardi di euro di investimenti sostenibili tra il 2020 e il 2030, di cui 500 miliardi direttamente dal bilancio dell’UE e altrettanti attingendo a risorse pubbliche e private nazionali o di altre istituzioni finanziarie internazionali. Tuttavia, queste risorse non saranno sufficienti, per cui la Commissione europea richiede agli Stati membri di riorientare anche le politiche fiscali nazionali verso la transizione climatica, vale a dire di greening national budgets, o “inverdire” i bilanci nazionali nella traduzione italiana.
L’introduzione e l’espansione degli strumenti di bilancio “verdi” servirà a riorientare investimenti, consumi e tassazione verso le priorità del Green Deal europeo. Questi strumenti consistono principalmente in:
Tassare o non sovvenzionare le attività economiche ad alta intensità di carbonio – in sostanza, il consumo di fonti fossili come petrolio, carbone e gas naturale – è un compito potenzialmente ingrato e sicuramente complesso. Ingrato perché queste maggiori tasse si traducono in un aumento del prezzo di alcuni beni e servizi di base – come i carburanti per il trasporto e per il riscaldamento – e del costo dell’energia, che è una determinante importante della competitività internazionale di alcuni settori industriali “pesanti”, sia in termini di processi manifatturieri, ma anche di occupazione e PIL e di disparità territoriali. Basti pensare al fenomeno dei gilets jaunes in Francia, scatenato proprio da un aumento delle accise sui carburanti. Quindi, anche se maggior tassazione e minori sussidi sono efficaci nel ridurre il consumo di combustibili fossili e di conseguenza le emissioni di gas a effetto serra, i costi di una politica simile possono avere ripercussioni economiche e sociali significative.
La corretta definizione di politiche fiscali verdi, secondo gli orientamenti suggeriti dalla Commissione europea, richiede di affrontare un certo numero di problemi sociali ed economici, ma anche tecnici, a partire da come si misura il prezzo del carbonio, qual è il corretto livello della tassazione delle emissioni di gas a effetto serra e come misurare e ridurre i sussidi ai combustibili fossili. In questo primo contributo, ci concentriamo su quest’ultimo punto.
L’attenzione ai sussidi alle fonti fossili è stata messa al centro dell’agenda politica dal lavoro di diverse istituzioni internazionali, in particolare l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE). I sussidi alle fonti fossili vengono stimati – grossomodo – attorno ai 200 miliardi di dollari a livello globale. Nei Paesi in via di sviluppo, tali sussidi consistono per lo più in trasferimenti diretti alla popolazione o misure che fissano il prezzo massimo dei combustibili. Nei Paesi sviluppati e in Europa, consistono solitamente in sconti fiscali, le cosiddette tax expenditures.
In Europa, la Commissione europea stima che ogni anno produttori e consumatori di fonti fossili ricevano circa 50 miliardi di euro. L’industria dell’energia riceve circa 18 miliardi di sussidi, trasporto ed industria circa 11 miliardi ciascuno, mentre 5 miliardi vanno all’agricoltura. I sussidi per i consumatori privati sono invece più limitati, stimati a circa due miliardi. Secondo la Commissione europea, in Italia i sussidi alle fonti fossili ammontano tra i 6 e i 7 miliardi annui. Tuttavia, il ministero dell’Ambiente, nel suo terzo Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi stima che questi sussidi ammontino a 17 miliardi.
I sussidi alle fonti fossili hanno ricevuto una crescente attenzione da parte delle istituzioni internazionali e dei governi nazionali perché, all’apparenza, sembrano più facili da modificare rispetto ad altre politiche fiscali: “Se per i governi nazionali è troppo difficile aumentare le tasse sui prodotti energetici – è il ragionamento – almeno potrebbero ridurre gli incentivi al loro consumo”. Da un punto di vista economico, l’effetto sarebbe lo stesso: più tasse o meno incentivi comportano un incremento del prezzo dei combustibili fossili, quindi una riduzione del consumo. Tuttavia, i costi politici di questa riforma sarebbero – si presume – minori perché queste misure sarebbero meglio difendibili in termini di equità e perché, colpendo principalmente i settori produttivi e non i consumatori, sarebbero più popolari fra gli elettori non direttamente colpiti.
Passare dalla teoria astratta alla pratica rimane però un percorso irto di difficoltà. Innanzitutto, come dimostra l’esempio italiano citato prima, mancano ancora una definizione e un metodo di misura comuni e condivisi di questi sussidi, e in particolare una definizione del punto di riferimento a partire dal quale si misurano. Il caso più emblematico è il “sussidio al diesel”. In Italia, così come nella maggior parte dei paesi UE, il diesel è tassato meno della benzina. Quindi, possiamo dire che il diesel riceve un sussidio? Rispetto a cosa? E come misuriamo questo sussidio: per litro di carburante, per contenuto energetico, per km percorsi o per emissioni di CO2? E, soprattutto, se viene aumentata l’accisa sulla benzina, questa è una politica green in quanto aumenta la tassazione dei combustibili fossili o una politica gray perché aumenta il sussidio sul diesel? A tutt’oggi non c’è accordo fra i paesi dell’Unione né su cosa rappresenti un sussidio, né su come lo si debba misurare.
I metodi per definire e misurare i sussidi più utilizzati in letteratura sono due: top-down e bottom-up. Il metodo top-down, quello dell’AIE, prevede di confrontare i prezzi internazionali dei carburanti e delle fonti di energia con i prezzi locali al dettaglio. Quando questi ultimi sono inferiori ai prezzi internazionali (inclusi i costi di trasporto, trasformazione ecc.), c’è un sussidio. Questa metodologia, che identifica un benchmark univoco per tutti i Paesi, è tuttavia di scarsa rilevanza per i Paesi europei, dove i prezzi al dettaglio sono, nella stragrande maggioranza dei casi, maggiori dei prezzi internazionali. Per i Paesi sviluppati si ritiene più utile la metodologia bottom-up, sviluppata dall’OCSE, che calcola i sussidi come la somma dei trasferimenti diretti e delle tax expenditures identificate nei bilanci pubblici. Tuttavia, la stima delle tax expenditures soffre del “problema del diesel” descritto sopra: qual è il livello di tassazione standard da prendere come unità di misura dei sussidi? E come fare sì che questo livello standard permetta una comparazione internazionale tra Paesi che, anche all’interno dell’UE, perseguono politiche fiscali ed energetiche molto diverse e hanno livelli di sviluppo e poteri di acquisto differenti?
Da un punto di vista analitico, la risposta a queste domande richiede di stabilire quale sia il giusto livello di tassazione dell’energia. Questa è la strada percorsa negli ultimi anni dal FMI, che ha cercato di stimare i costi che il consumo delle varie fonti energetiche impone alla società (per esempio in termini di inquinamento, cambiamento climatico, riduzione della salute pubblica, traffico) per poterli poi confrontare con i livelli di tassazione nei vari Paesi. Da un punto di vista politico, la risposta negli ultimi anni è stata apparentemente più tranchant. Le varie istituzioni internazionali ed europee hanno suggerito che, comunque siano misurati, i sussidi alle fonti fossili vadano ridotti. I governi nazionali hanno invece proceduto più lentamente di quanto suggerito, a causa delle ricadute sociali, economiche ed industriali. Anche in Italia, nonostante l’identificazione e la stima dei sussidi ambientali sia fatta in maniera accurata, ad ogni Finanziaria, la riduzione dei sussidi è sempre tra le idee “preliminari” della Legge di bilancio, che però non arriva mai o quasi mai nel testo finale per la resistenza dei settori che sarebbero maggiormente colpiti (trasporti, agricoltura, industria) e per le conseguenze che in certi casi si avrebbero sulla loro competitività a livello europeo se la misura non fosse presa contemporaneamente da tutti gli Stati Membri. Il tema è infatti fra quelli considerati nella prossima revisione della Direttiva europea sulla tassazione dei prodotti energetici ed i relativi sussidi.