Fonte: Corriere della Sera
di Ernesto Galli della Loggia
L’immagine del Pd emersa dalla campagna elettorale è stata quella di un partito di fatto identificato con l’esistente e con la sua difesa: fino al punto di considerare tale difesa il proprio compito principale. L’immagine tipica di un partito dell’establishment
È proprio la campagna elettorale del Pd per le elezioni del 4 marzo che aiuta a capire quanto c’è da capire circa le ragioni della crisi di consenso e d’identità che ha colpito quella che nonostante tutto resta l’unica formazione esistente della Sinistra italiana. Il Pd ha fatto una campagna elettorale tutta orientata contro i due partiti che esso aveva eletto a suoi rivali per antonomasia (del tutto ricambiato naturalmente): la Lega e i Cinque Stelle. Sono stati infatti i loro principali punti programmatici — dal reddito di cittadinanza all’espulsione in massa degli immigrati clandestini, all’antieuropeismo — che hanno costituito il continuo bersaglio polemico dei Democratici. Si può dire che il volto con cui il Pd si è presentato all’elettorato sia stato quello di una sorta di katéchon, di unica forza capace di trattenere il Paese dal precipitare nelle tenebre del populismo (anche se un identico ruolo era significativamente rivendicato pure da Berlusconi). Il Pd, in altre parole, ha costruito tutta la propria campagna e quindi la propria immagine in funzione antagonistica a dei nemici politici. È, beninteso, quanto fanno tutti i partiti, specie in una campagna elettorale. Solo che nella campagna elettorale del Pd tale attacco ai nemici politici non si è accompagnato pressoché a niente altro che non fosse il freddo elenco dei propri meriti come forza di governo. Quali aspetti della vita pubblica e della società italiana, ad esempio, il Pd intendeva contrastare? Per quale aspetto o settore di entrambe proponeva qualche cambiamento significativo? Quali problemi nuovi additava, e quali soluzioni? Difficile saperlo.
Non dubito che forse per ognuna di queste domande da qualche parte del tale o tal altro documento o pubblicazione del partito sarà stato scritto più o meno qualcosa. Il punto è che non è certo con questo qualcosa che i Democratici si sono rivolti all’elettorato. La loro campagna è consistita unicamente nella continua sottolineatura delle presunte sciocchezze, approssimazioni o vere e proprie menzogne contenute nelle proposte degli altri (tra l’altro con l’effetto suicida che per settimane tutto il Paese ha parlato solo di queste). Il risultato inevitabile è stato che l’immagine del Pd venutane fuori è stata quella di un partito di fatto identificato con l’esistente e con la sua difesa: fino al punto di considerare tale difesa il proprio compito principale. Insomma l’immagine tipica di un partito dell’establishment, assai più di un partito conservatore che di un partito di sinistra. Tanto più in una situazione sociale come la nostra attuale dove, lo dicono le statistiche dell’Istat, sono almeno dieci i milioni di italiani che vivono nella povertà o in condizioni di disagio assai prossime alla povertà, dove per giudizio unanime interi settori dei servizi essenziali funzionano male o malissimo, dove in intere regioni le condizioni della sanità sono una vergogna, quelle della disoccupazione insostenibili e così via proseguendo in un elenco fin troppo noto.
Ora, se è vero che un problema d’identificazione con l’esistente e con l’establishment è un problema più o meno comune a tutti partiti socialdemocratici dell’Europa occidentale dopo decenni e decenni di governo, è anche vero che in Italia, però, tale problema è particolarmente accentuato. Per due ragioni. Innanzi tutto perché fin dagli anni 60 del secolo scorso la stragrande maggioranza del mondo dei media, dell’arte, del cinema, del giornalismo, dell’editoria, della letteratura, cioè dell’apparato culturale del Paese con tutta la vasta rete di relazioni che ad esso fa capo, si riconosce nella Sinistra. Cioè è già da moltissimo tempo, fin da quando essa era politicamente all’opposizione, che la Sinistra è parte decisiva dell’establishment italiano, ne reca i tratti distintivi. Un aspetto, questo, destinato a diventare ancora più forte dopo il 1993-94 in forza della seconda delle due ragioni di cui sopra. Vale a dire a causa della scomparsa dal panorama politico italiano di un partito di centro, moderato, quale era stato la Democrazia cristiana: la quale bene o male aveva rappresentato per mezzo secolo un fattore importante di coagulo e di rappresentanza di parti decisive della classe dirigente della Penisola. Una funzione, viceversa, che non ha di certo incarnato Berlusconi, mai riuscito a liberarsi di un suo tratto di provvisorietà e di imprevedibilità di sapore avventuristico, e di una crescente impresentabilità stilistica personale, che lo hanno sempre reso fondamentalmente lontano dall’establishment italiano. Al quale, dunque, non è rimasto allora che rivolgersi al Pd, il quale con il suo antico lignaggio nella tradizione italo-comunista appariva garanzia di serietà, solidità, competenza, nonché, ciò che non guastava, sempre più ministeriale. Da tempo tutti i poteri che contano non si sono mai schierati — di fatto e almeno pubblicamente (nella realtà e dietro le quinte magari è diverso, ma qui si sta parlando per l’appunto dell’immagine) — in maniera contraria al Pd quanto piuttosto a suo favore: una tendenza da Renzi rovinosamente assecondata.
Non è facile dire quale possa essere oggi il compito di un partito di sinistra — e perciò necessariamente socialdemocratico —, ma mi pare indubbio che un tale compito non possa che iniziare da qui. Dal contrastare qualunque visione omogeneizzatrice della società esistente per affermare, viceversa, l’immagine assai più veritiera di una società — com’è appunto la nostra — profondamente segmentata, con faglie d’ineguaglianza profonde, attraversata da visibili contraddizioni. Il che comporta poi nell’azione, e poi ancora in una campagna elettorale, non solo e non tanto scendere in campo contro dei nemici politici, ma innanzi tutto indicare geografie sociali da modificare, meccanismi nuovi da adottare, attori sociali da contrastare e altri da favorire. Non basta: mentre chi non vuole cambiare è naturale che non si senta indotto a spingere lo sguardo troppo lontano dal presente, è chi vuole una realtà diversa, invece, che non dovrebbe poter fare a meno di disegnare un futuro, il che vuol dire sempre, anche, riallacciarsi a un passato. Se il Pd si sia mosso su tali binari lo lascio giudicare a chi legge. Per quel che mi riguarda pongo solo una domanda: ma se un partito che si dice di sinistra non fa o non cerca di fare quanto sopra, che esiste a fare?