Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Gaggi
Il ruolo diplomatico e strategico della Cina diventerà ancor più essenziale se davvero, come ipotizzano alcuni analisti, Kim Jong-un accetterà di sedersi al tavolo del negoziato, ora che ha dimostrato che potrebbe avere gli strumenti per colpire gli Usa
Vola molto in alto, il missile balistico Hwasong-15 lanciato dalla Corea del Nord mercoledì notte: 4.500 chilometri, dieci volte più lontano dalla Terra della Stazione spaziale internazionale. I tecnici americani fanno due conti: seguendo una traiettoria diversa avrebbe potuto raggiungere un bersaglio a 13 mila chilometri di distanza. Per la prima volta Kim Jong-un dimostra di poter colpire (almeno in teoria) gli Stati Uniti compresa la sua capitale. Trump preannuncia nuove sanzioni e chiama il presidente cinese: gli chiede di rispettare l’impegno ad aumentare la pressione sul regime di Pyongyang. Poi torna a insultare il suo dittatore, un rocket man ora definito anche psicopatico ma, almeno per adesso non usa gli stessi toni estremi, come aveva fatto dopo i precedenti lanci di missili a luglio e settembre.
Allora l’America era stata percorsa da un brivido di paura. Stavolta, invece, la Borsa continua a salire mentre le televisioni parlano soprattutto del licenziamento in tronco del popolarissimo anchor televisivo della NBC Matt Lauer (per molestie sessuali) e della riforma delle tasse che fa passi avanti al Senato. Una tesi ardita si diffonde tra gli analisti: Kim ha raggiunto il suo obiettivo e ora potrebbe essere disposto a negoziare. Un’apertura da non escludere, ma difficile da gestire per gli Usa che si sono sempre rifiutati di riconoscere Pyongyang come potenza nucleare.
Messi alla prova i rapporti Stati Uniti-Cina, ma ora Pechino può usare anche la crisi coreana per guadagnare terreno. In realtà l’opzione militare rimane sul tavolo perché Kim è un dittatore imprevedibile ora dotato di armi spaventose e perché in passato, anche quando ha accettato di negoziare, la Corea non ha mai rispettato gli impegni presi. Stavolta, però, Trump ha scelto nelle sue prime sortite dopo il lancio del missile di parlare soprattutto di sanzioni più aspre, nonostante questo strumento non si sia dimostrato fin qui efficace. Mentre il segretario di Stato ha detto che la strada per una soluzione diplomatica della crisi non è chiusa: quando lo aveva sostenuto in estate era stato bruscamente zittito dal presidente che gli aveva dato dell’ingenuo.
Oggi Trump torna a minacciare ma sembra anche seguire una traiettoria in parte diversa. Forse è solo un cambiamento momentaneo dettato dalla volontà di mettere alla prova la lealtà di Xi Jinping che ha promesso nuovi interventi per frenare Kim. Probabilmente c’è anche il tentativo di mantenere l’attenzione dell’America concentrata ancor per qualche giorno sulla riforma fiscale che, se approvata dal Senato, sarebbe il primo grande successo della sua presidenza. Ma la Casa Bianca, al di là di certe incontenibili invettive presidenziali, deve anche prendere atto che è controproducente continuare a minacciare interventi militari destinata a causare un conflitto con perdite gigantesche per gli alleati dell’America e per le stesse truppe Usa dislocate in Asia.
Anche scommettere sul negoziato ha, però, i suoi rischi: bisogna fidarsi dei cinesi e sperare nell’efficacia futura delle sanzioni. Dialogando con un dittatore dipinto fino a ieri come un pazzo criminale. Nella migliore delle ipotesi la conclusione della crisi coreana segnerebbe un’ulteriore espansione dell’influenza politica della Cina in Asia. Pechino sarebbe, infatti, il naturale garante di un’intesa. Ma la diffusione dell’egemonia cinese in Asia è ormai un fatto compiuto, agevolato dallo stesso Trump con la sua ostilità ai trattati di libero scambio. Secondo un rapporto Usa di fonte militare citato ieri dal Washington Post gli organismi di cooperazione internazionale creati dalla Cina come la Asian Intrastrucuture Investment Bank e One Belt One Road stanno facendo confluire verso 64 paesi asiatici ed europei circa mille miliardi di dollari di aiuti e investimenti infrastutturali: sei volte lo sforzo fatto dagli Usa dopo la Seconda guerra mondiale col Piano Marshall. Allora l’America spese una cifra pari a 150 miliardi di dollari di oggi per rimettere in piedi le economie europee, conquistando un’influenza permanente in questa parte del mondo.
L’espansionismo politico ed economico cinese non è certo iniziato ieri: va avanti da diversi anni, ma ora è fortemente agevolato da Trump che, chiudendosi nella strategia dell’America First, ha finito per spingere alcuni alleati degli Usa tra le braccia della potenza asiatica. Il ruolo diplimatico e strategico di Pechino diventerà ancor più essenziale se davvero, come ipotizzano alcuni analisti, Kim Jong Un accetterà di sedersi al tavolo del negoziato, ora che ha dimostrato che potrebbe avere gli strumenti per colpire gli Usa (condizionale d’obbligo visto che la Corea non ha ancora sperimentato la tecnologia necessaria per il rientro di una testata nucleare nell’atmosfera terrestre).