22 Novembre 2024
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C’è un nesso molto stretto tra istruzione e suffragio universale, ma fa differenza il modo in cui apprendiamo: se attraverso la lettura e la comprensione di testi, più o meno complessi; oppure attraverso immagini, grafici, video, slogan

Costernati e allarmati, abbiamo fatto finta di scoprire grazie alla denuncia di Save The Children che metà dei quindicenni italiani non comprendono i testi che leggono (in realtà bastavano e avanzavano i tanto osteggiati test Invalsi). La nostra preoccupazione immediata ha riguardato, come è logico, il futuro di questi teenager: che ne sarà di loro all’università, nella vita, nella competizione sempre più spietata per i pochi lavori di qualità che il mercato offre ai giovani?
Non ci siamo chiesti però che ne sarà della nostra democrazia, quando coorti generazionali per metà illetterate diventeranno il corpo elettorale di domani. E invece dovremmo, perché c’è un nesso molto stretto tra istruzione e suffragio universale. Ralf Dahrendorf, il grande sociologo anglo-tedesco, era solito sostenere che la democrazia non può esistere senza cittadini. Senza un dibattito informato. Senza una «sfera pubblica», e cioè senza uno spazio di incontro tra soggetti liberi e con uguale diritto di parola, che sottopongono al vaglio reciproco le loro idee-opinioni, espresse attraverso forme argomentative (così Massimo Cerulo definisce la «sfera pubblica», traducendo il termine tedesco usato da Habermas).
Serve dunque un luogo, anche virtuale, diciamo pure un’agorà, in cui esistano le condizioni per cui io possa avere speranza di convincere qualcun altro con la forza delle mie argomentazioni, e viceversa. Se così non fosse la democrazia, che come è noto non si esaurisce nel momento elettorale, diventerebbe una cosa vuota, facile preda di demagoghi, fanatici, e aspiranti tiranni (tanto per dare un’idea: anche in Russia e in Iran il popolo vota ed elegge il suo presidente, ma è difficile definire democrazie quei sistemi).
Il bisogno di avere cittadini attivi e informati, materia prima della democrazia, angustia del resto gli inventori di questo sistema politico fin dagli albori. Dopo il periodo del Terrore, nella Costituzione dell’Anno III (1795), i rivoluzionari francesi che avevano preso il posto dei giacobini scrissero che entro un decennio i giovani avrebbero dovuto provare di saper leggere e scrivere per ottenere l’iscrizione al registro elettorale. Ma giustificavano questo criterio censitario-culturale, che contraddiceva il principio del suffragio universale, riponendo un’illimitata fiducia nella forza egualitaria dell’istruzione: erano cioè convinti che la diffusione di cultura e conoscenza avrebbero fatto il miracolo di formare dei veri cittadini, liberi di pensare con la propria testa, e per questo vararono una serie di misure radicali per l’educazione, dalla scuola primaria gratuita per tutti, alla fondazione dell’École Normale, all’introduzione del sistema metrico decimale.
Le moderne liberal-democrazie hanno progressivamente risolto il problema con la scolarizzazione e l’alfabetizzazione di massa, e con la riduzione delle disuguaglianze sociali nei trenta formidabili anni di crescita successivi alla guerra. Ma il problema si ripresenta oggi in forme del tutto nuove.
L’antico divario tra colti e ignoranti, tra scolarizzati e analfabeti, ha infatti lasciato il posto a una nuova divisione, nella quale non ci sono più ignoranti nel senso letterale del termine. Oggi tutti, o quasi tutti (con l’eccezione degli anziani che non hanno accesso agli strumenti digitali) sanno. Nessuno ignora, né accetterebbe mai di ignorare. La partecipazione al dibattito nazionale, a quella «sfera pubblica» di Habermas di cui parlavamo, appare assicurata a tutti dalla Rete e dai social. Per questo a molti è parso che le nuove tecnologie potessero dar vita a una democrazia più genuina.
Ma la differenza sta in come apprendiamo: se attraverso la lettura e la comprensione di testi, più o meno complessi; oppure attraverso immagini, grafici, video, slogan. Diverso è il processo razionale che si mette in moto, diverso il mix tra ragione e intuizione, diverso lo stimolo alla riflessione. Diverso sarà dunque anche il modo di informarsi e di partecipare alla competizione elettorale; perché chi non legge innanzitutto diffida di chi ha letto, e buona parte della rivolta anti-establishment ha questo tratto di rivalsa.
La scuola stessa si è fatta asilo di tale novità. Francesco Provinciali, docente ed educatore, elenca così i cambiamenti cui ha aperto le porte: «Facilitazione dei corsi di studio e di programma, declassamento di storia e geografia, graduale abbandono dell’uso del corsivo e della scrittura manuale, enfasi sui test al posto del testo scritto, lenta espunzione della poesia, della musica e della storia dell’arte, linguaggi corti e sincopati, sigle e acronimi che prendono il posto della scrittura fluente e narrativa, oblio della memoria come metodo di allenamento della mente, scomparsa dei dettati, sostituiti da cartelloni, diagrammi con frecce di richiamo e collegamento a schema aperto». Sono tutti metodi che incentivano la soggettività dell’interpretazione, favoriscono la sua precarietà e fungibilità, e rendono più arduo metabolizzarla: un habitat ideale per chi pensa che «uno vale uno», e che le convinzioni non sono altro che opinioni. I social stessi sono una prova evidente di questa trasformazione del dibattito pubblico in palestra di faziosità e incomunicabilità.
È di fronte a un testo scritto che questo nuovo divario salta fuori con evidenza. Non è neanche più solo una questione di disuguaglianze sociali (che pure contano, soprattutto al Sud, dove la dispersione scolastica segue i diagrammi del reddito). Basti guardare al clamoroso esito del recente concorso per la magistratura: si presume che i 3.797 aspiranti giudici avessero tutti analoga estrazione sociale e più o meno gli stessi mezzi, certamente non modestissimi visto che sono arrivati fino alla laurea e alle scuole di preparazione al concorso. Eppure solo 220 di loro hanno raggiunto la sufficienza nella prova scritta, a causa di una «grande povertà argomentativa e linguistica, schemi preconfezionati, senza un grande capacità di ragionamento, scarsa originalità e conseguenzialità, in alcuni casi errori marchiani di concetto, diritto e grammatica». L’elenco dei difetti di questi laureati sembra ricalcare da vicino i modi di apprendimento che la scuola stessa sta proponendo, in ossequio allo spirito del tempo.
La domanda è: ragazzi che non sanno scrivere e comprendere un testo, nel senso che oggi si deve dare a questi verbi, saranno migliori o peggiori cittadini? Non è una domanda retorica. Magari il futuro sarà migliore. Ma se invece pensiamo che no, non saranno più liberi e indipendenti, ma anzi più esposti all’inganno e alla mistificazione, dobbiamo intervenire sulla scuola. A partire da quella media, giunta forse al capolinea della sua storia iniziata sessant’anni fa. Perché se è vero che due ragazzi su cinque escono dalle medie con competenze da quinta elementare, a che servono quei tre anni?

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