19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Federico Fubini

Come Berlino, tutta l’area euro (meno la Francia) ha cercato di creare crescita e lavoro quasi solo tramite l’export e i surplus commerciali


I dati economici non rappresentano mai tutta la realtà, sono giusto una sintesi espressa in un numero. Non vanno idolatrati come fossero l’unica legge, ma non li si può ignorare. A maggior ragione quando sono come quelli di ieri, perché raccontano due storie diverse. La prima è che l’Italia non solo è in recessione, ma quest’ultima sarà più seria e lunga di quanto qualcuno avesse immaginato fin qui. La seconda storia che inizia a prendere corpo è invece che anche l’area euro rischia di fermarsi, almeno per qualche mese: la ripresa europea è partita in ritardo rispetto agli Stati Uniti, ma paradossalmente si sta esaurendo prima. Com’è inevitabile, le vicissitudini dell’Italia e dell’Europa si sovrappongono. Il Paese sarebbe più in salute se lo fosse l’area euro, e viceversa. Ma i dati sulla frenata della crescita del credito alle imprese diffusi ieri dalle banche confermano ciò che l’Istat e la Banca d’Italia segnalano da tempo: questa recessione italiana nasce dall’«incertezza», eufemismo per dire che le sbandate sul bilancio nel 2018, quindi la tensione sui mercati, hanno frenato gli investimenti delle imprese. E il problema non è risolto con l’accordo — provvisorio — con Bruxelles sul deficit. Le imprese stentano a uscire dal guscio, perché non capiscono che rotta voglia imprimere il governo o che aspettativa di vita abbia, ma vedono già che la prossima manovra sarà un’enorme montagna da scalare. Questa paralisi degli investimenti nuoce all’economia, quindi a cascata sulla finanza pubblica e sul costo del debito. Ma proprio lo spread che non scende mai abbastanza a sua volta erode la fiducia e frena l’economia. È un incantesimo da spezzare al più presto. Purtroppo nel frattempo la trama europea che si svolge intorno a noi complica il quadro invece di chiarirlo. La Germania ha evitato la recessione per un soffio. Le aspettative delle imprese tedesche viaggiano sotto zero. La fiducia nell’area euro è in calo costante da un anno, solo adesso con una piccola luce in fondo al tunnel.
Quel che conta non è la congiuntura — migliorerà — ma la miopia che sta diventando evidente nella strategia europea di questi anni. Nella massima sintesi essa è spesso una brutta copia di quella della nazione guida: come la Germania tutti i Paesi dell’euro (va detto, meno la Francia) hanno cercato di creare crescita e lavoro quasi solo tramite l’export, i surplus commerciali e quindi sfruttando la voglia di spendere del resto del mondo. La Cina siamo diventati noi, noi europei. Siamo noi la principale fonte di squilibri al mondo: vendiamo all’estero molto più di quanto compriamo e spesso lo facciamo grazie al lavoro a basso costo. Dal 2010 il saldo degli scambi dell’area sul resto del mondo è esploso da zero fino a un surplus fra i 300 e i 400 miliardi di euro. Nel frattempo, la quota di lavoratori dipendenti in condizioni di povertà in area euro è esplosa ben sopra quota 9%. Questo è il dato che più avvicina la Grecia, l’Italia e la Spagna alla Germania: la povertà fra coloro che hanno un lavoro. Sono il 9,1% fra i tedeschi, il 12,2% fra gli italiani, il 12,9% fra i greci, il 13,1% fra gli spagnoli (molto meno invece in Francia o in Scandinavia). Per una volta siamo nella categoria della Germania, peccato non sia quella giusta.
Diventa evidente l’incoerenza logica di questa strategia a guida tedesca: aver puntato tutto sull’export ha delocalizzato il benessere degli europei nelle mani di politici di altri Paesi con valori e problemi diversi dai nostri. E ora quelli non ci aiutano più. Gli Stati Uniti hanno appena mosso il primo passo di una guerra commerciale all’auto europea, che rischia di diventare lunga e sanguinosa. L’export europeo verso la Cina è già sceso del 5% perché la seconda economia del mondo è piena di debiti e dovrà svalutare, diventando più impenetrabile. E una Brexit ruvida ormai è qualcosa più di una semplice minaccia.
Questi segnali dal mondo esterno stanno dicendo all’area euro che è tempo di cambiare strada. Dopo anni di interventi della banca centrale e di tassi negativi — gli operatori di mercato pagano i governi perché questi prendano in prestito i loro soldi — non ha senso che gli investimenti pubblici in Europa siano fermi sotto le medie di qualunque altra parte del mondo. Stati Uniti, Svizzera o Giappone inclusi. Ed è follia che l’intera zona euro e 12 Paesi su 19 dell’area (anche l’Italia) da anni taglino la spesa in istruzione, mentre si sta entrando nell’economia della conoscenza. Purtroppo il governo di Roma non può impegnarsi molto su questi fronti, a causa del debito e perché ha speso male le poche risorse che aveva. Può solo cercare di dare più chiarezza, quindi più fiducia e stabilità. Ma gli altri possono coordinarsi ed agire per un riequilibrio dell’Europa. Il momento per farlo, prima che sia tardi, è adesso.

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