19 Settembre 2024

La maggioranza deve decidere se vuole rappresentare solo il potere oppure essere un autentico motore di cambiamento. E i cambiamenti cominciano dalle idee

È quando la destra di governo si accinge al cruciale compito delle nomine che emerge una delle sue più gravi debolezze: non aver visto un numero sufficiente di puntate di Downton Abbey, privandosi così della possibilità di approfondire la differenza che passa tra un maggiordomo e un cameriere.
Una differenza decisiva. Come infatti sa ogni spettatore della fiction inglese, il signor Carson, il maggiordomo al servizio della nobile famiglia Crawley, è chiamato, sì,a sovrintendere al buon andamento quotidiano di tutte le faccende domestiche, ma in realtà egli ha di mira sempre e solo una cosa innanzi tutto: tenere alto il prestigio della casata e dei suoi padroni. Questa è la sua vera funzione: badare in ogni circostanza che il loro nome non venga offuscato dalla minima ombra, prevenire l’eventualità che un qualunque disguido, un qualunque incidente o malaccortezza leda l’immagine e la fama della casata. E in tal modo accrescerne il prestigio.
Il signor Carson non è un dipendente incaricato di un servizio, insomma. È il custode di un rango (cioè di una tradizione, di uno stile, di un’idea). Compiere i vari servizi, obbedire e servire è invece cosa dei camerieri. Degnissime persone, intendiamoci. C’è una nobiltà nel servire, ha scritto Thomas Mann, che solo i poveri di spirito non riescono a comprendere: ma per l’appunto il compito di chi serve è quello di eseguire quanto altri ha deciso, non di prendere iniziative e di rappresentare un’idea.
Ora, quando chi governa deve procedere a nominare qualcuno per un incarico pubblico si trova per l’appunto di fronte a questa scelta: designare un maggiordomo o un cameriere? Cioè da un lato una persona che in maniera indipendente e creativa si cali nel suo ruolo, che si faccia carico dei valori e della prospettiva politica generale di chi lo nomina mettendo le proprie competenze al servizio di quei valori e di quella politica perché crede in essi, pur se comunque è deciso a mantenere una propria autonoma sfera di giudizio e soprattutto di decisione. Dall’altro lato, invece, una persona forse anche capace ma soprattutto disposta a seguire le indicazioni di chi lo ha nominato: quindi un puro esecutore, una persona dalle convinzioni presumibilmente non fermissime e in ogni caso pronta a rinunciarvi.
È evidente quale sia l’interesse della politica: nominare senz’altro la persona del secondo tipo, il seguace, l’esecutore. Perché non dà problemi, perché è nei patti che gli si potrà chiedere qualunque cosa sicuri della sua obbedienza, perché se necessario lo si potrà mandar via e non succederà nulla. Rimane una domanda però: è proprio sicuro che l’interesse vero della politica sia questo? sia solo questo? Ed è proprio sicuro in particolare che solo questo sia oggi l’interesse della destra quando deve procedere a una nomina? Specialmente della destra che si riconosce nella leadership di Giorgia Meloni e della sua ambizione di rappresentare non già un governo qualunque bensì l’inizio di un nuovo ciclo politico, di un autentico cambiamento?
Perché come è noto la destra in Italia ha un problema: ha sì la legittimazione delle urne, ma ha solo quella. E la vittoria elettorale, come dimostra la fine fatta dai vari governi Berlusconi, non basta a imprimere al Paese un indirizzo realmente nuovo e diverso. La vittoria elettorale dà questa illusione, dà l’illusione di avere tutte le carte in mano: ma quando arriva il momento di calarle sul tavolo spesso ci si accorge che la vera partita si gioca in realtà con altri strumenti. Con l’autorevolezza, con la capacità d’influenza e di relazione, con la conoscenza delle convenzioni espressive e del bon ton istituzionale, con l’iniziativa e la credibilità personali. Sono le cose, per l’appunto, che distinguono una classe dirigente, quella classe dirigente che all’attuale destra di governo manca. Non per sua colpa ma per ragioni storiche: perché, anche se è stata più volte al governo, della classe dirigente della Repubblica la destra in realtà non ha mai fatto parte. Certo, tra le sue fila ha sempre annoverato qualche personalità di rilievo, ma dietro di sé non ha mai avuto un vero ambiente intrinseco al potere sociale, mai vasti giri di relazioni importanti nei luoghi dove si formano e si accreditano i valori e le idee dominanti. Da settant’anni, in tutti questi ambiti l’agenda e i suoi contenuti sono stati sempre dettati da altri.
Non è stato un bene. In tal modo, infatti, l’atmosfera ideale e culturale italiana, la sua capacità di capire il mondo, lo spirito pubblico del Paese ne sono usciti profondamente squilibrati in una sola direzione. La quale, non avendo mai modo di misurarsi con un vero contraltare ha finito tra l’altro per generare un conformismo diffuso, una vasta e supina accettazione di idee e di narrazioni. La discussione pubblica italiana è così divenuta quella che è: troppo spesso un’interminabile galleria di luoghi comuni.
Oggi l’attuale destra di governo e in modo particolare chi la guida deve decidere se intende far sì che questo stato di cose cambi oppure no. Deve decidere se intende essere solo una sigla e un programma elettorale, solo un’organizzazione politica e magari anche una maggioranza parlamentare come è oggi, o qualcosa di diverso. Se vuole rappresentare solo il potere oppure un autentico motore di cambiamento. Ricordando allora, però, che ogni autentico cambiamento non comincia dal numero degli uscieri o dei redattori di un Tg che si riesce a nominare. Comincia dalle idee. Comincia scegliendo i maggiordomi all’altezza della situazione, non reclutando i camerieri.

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