23 Ottobre 2024

L’emarginazione in Italia del pensiero conservatore e anticomunista

È una frase da due anni continuamente ripetuta: «La destra non ha una classe dirigente». Di solito seguita da un’appendice d’obbligo: «… e Giorgia Meloni non fa nulla per allargare quella che ha, ad esempio cercando di immettere volti e forze nuove nelle sue file». È una frase ripetuta più di una volta anche da chi scrive: dopo due anni di vita del governo è forse venuto il momento, però, di riflettere un po’di più su queste parole, su ciò che implicano. Ad esempio cominciando con il porsi la domanda: «Ma come avrebbe potuto mai avercela, la destra,— soprattutto la destra di ascendenza neo fascista perché è di essa che stiamo parlando — questa famosa classe dirigente?» La classe dirigente a disposizione di un partito non è il suo personale politico, i suoi militanti. È qualcosa di diverso, e tanto meno essa può essere pensata come separata dalla classe dirigente del Paese nel suo complesso. È una parte di questa, viceversa, la parte di un insieme. Non esistono tante classi dirigenti, infatti: ne esiste una sola. Bisogna dunque chiedersi: era mai possibile, per le ragioni che tutti conosciamo, che nella Prima repubblica nelle file della classe dirigente italiana ci fosse spazio per qualcuno contiguo a una destra di ascendenza fascista? È vero che poi con Berlusconi le cose sono cambiate, e cioè che quella destra è andata al governo. Ma una classe dirigente non è cosa che nasca solitamente dai governi, è un complesso prodotto storico-sociale sul tempo lungo.
Fatto di amicizie, frequentazioni dei medesimi ambienti, collaborazioni comuni nelle sedi importanti; di letture, gusti e abitudini condivise o non troppo diverse; magari anche dall’avere fatto le stesse scuole e le stesse vacanze, di essersi sposati nel medesimo ambiente. Tutte cose che, necessitando di un comune sfondo ideale, di un più o meno comune sentire, proprio perciò hanno finito per escludere inevitabilmente le donne e gli uomini della destra di ascendenza neofascista anche se il loro partito era al governo.
Infine, cemento di una classe dirigente sono l’università, la cultura, l’informazione, i mass media, grazie alla legittimazione sociale che i loro rispettivi circuiti conferiscono a chi ne partecipa. Ma anche in questo ambito sia nella Prima che nella Seconda repubblica non si è potuto che registrare la sostanziale irrilevanza pubblica della destra, e non solo di quella di origine missina.
Ma proprio a questo proposito è giusto porsi un’ulteriore domanda: quanto ha contato nell’irrilevanza pubblica di cui sopra la volontà di esclusione da parte del potere culturale costituito? Quanto ha contato un pregiudizio ideologico che giudicava privo di valore tutto quanto non corrispondeva al proprio canone? Quanto ha contato, per dirla tutta, una faziosità pregiudizievole che a lungo ha impedito di apprezzare, spesso semplicemente di citare e discutere, i prodotti culturali pur degnissimi ma colpevoli di venire da orizzonti diversi da quelli considerati accreditati o perlomeno accettabili?
Come mai in Italia, ad esempio, non c’è stato nulla di simile al terremoto ideologico che produsse in Francia la pubblicazione di «Arcipelago Gulag», da noi quasi neppure recensito o fatto oggetto di discussione e quindi pochissimo letto? E perché solo oggi in tanti possiamo accorgerci, per fare un altro esempio, che a suo tempo il Giornale di Montanelli non è stato quella sentina della reazione da mettere al bando, come a lungo si volle far credere, bensì un foglio dove si dava convegno la migliore cultura liberaldemocratica non solo italiana ma europea — con collaboratori che andavano da Raymond Aron a Francois Fejto, a Guido Piovene, da Nicola Metteucci a Eugène Jonesco, a Renzo de Felice a Geno Pampaloni? Ancora: perché i libri e le idee di una personalità come Augusto Del Noce, storico e critico acutissimo di tutto l’itinerario ideologico e culturale italiano dal fascismo alla Repubblica, non ha avuto neppure un decimo dell’attenzione riservata ad altri? La risposta è facile: perché Del Noce era un credente e un conservatore assai critico verso il progressismo, a cominciare proprio da quello di marca cattolica. Per tre o quattro decenni è bastato questo in Italia per essere esclusi dall’attenzione pubblica se non — quando invece capitava, vedi de Felice — per divenire oggetto delle critiche e dei sospetti più malevoli.
In queste condizioni è stato inevitabile che l’intera classe dirigente del nostro Paese si uniformasse al pensiero e ai valori dominanti, e che chiunque volesse farne parte non potesse che adeguarsi. È avvenuto così che tranne rari casi nella classe dirigente italiana — in quella che ha voce, visibilità e rappresentatività pubblica ma non esplicitamente politica — di regola non si sia fatto mai posto a chi professasse apertamente idee che all’opinione mainstream apparissero conservatrici o anticomuniste, pur se all’interno di una prospettiva schiettamente liberale. Ed è altresì in tal modo che si è di fatto ostruito qualunque canale di comunicazione capace di favorire l’approdo costituzionale della cultura propria della destra missina e quindi la sua piena accettazione/legittimazione come componente della classe dirigente del Paese.
È precisamente a mantenere questa ostruzione, a non colmare questo fossato, che serve l’incessante, quasi ossessiva evocazione del fascismo che risuona ad ogni occasione contro «il governo della destra». Che ciò favorisca le sorti elettorali dei suoi avversari è quanto mai dubbio; che invece valga a impedire la crescita della società italiana mi sembra certo.

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